Trump ha adottato una linea dura nei confronti di Pechino, imponendo dazi punitivi, bloccando le esportazioni di semiconduttori verso un Paese che considera a tutti gli effetti un temibile avversario economico e militare, anche se il presidente Usa non ha mai nascosto un certo rispetto e stima per Xi Jinping, ritenendolo un leader “molto duro” con cui è difficile fare accordi, che però gli è sempre piaciuto e – ha detto - “sempre mi piacerà”.
Il governo Albanese invece, proprio sul fronte cinese, ha adottato un approccio diverso, stabilizzando i legami precedentemente logorati con quello che è il principale partner commerciale dell’Australia, seguendo il principio che il primo ministro ha ripetuto in più di un’occasione: “Cooperare dove possibile, dissentire dove necessario e impegnarsi sempre nell’interesse nazionale”.
Distanze di partenza con Washington su un tema che tocca da vicino entrambi i Paesi e che da un momento all’altro potrebbe diventare un nuovo fronte di grandi ansie e incertezze globali se Pechino deciderà di usare davvero la forza militare per risolvere la questione taiwanese.
Dal fronte dell’opposizione, come previsto, sono arrivati subito consigli ad Albanese. Il ministro ombra degli Esteri Michaelia Cash ha, infatti, affermato: “Albanese dovrebbe fare ogni sforzo per incontrare Trump il prima possibile. Poiché sarà già all’estero (dando quindi per certe le informazioni apparse sui giornali, ndr) ha un’opportunità d’oro per recarsi anche negli Stati Uniti a luglio e incontrare il presidente Trump. È importante che il primo ministro riaffermi l’importanza del patto di sicurezza AUKUS (con Stati Uniti e Regno Unito) in questi tempi incerti e che presenti anche la nostra richiesta di esenzioni dai dazi”. Facile no? Basta chiedere.
L’urgenza comunque c’è, anche in relazione ai motivi che hanno fatto saltare l’incontro previsto in Canada della guerra in Medio Oriente che sta tenendo il mondo col fiato sospeso. Albanese, ogni volta che è chiamato a parlarne, continua a ripetere che è più che mai “comprensibile” la cancellazione del colloquio a Kananaskis, date le circostanze, ma non si sofferma più di tanto sull’assenza di una chiamata di follow-up – una cortesia riservata ad altri leader mondiali che sono stati lasciati senza incontro personale dal presidente, tra cui il premier indiano Narendra Modi e la presidente messicana Claudia Sheinbaum. Il primo ministro, insomma, continua il suo approccio pragmatico nei confronti di Trump, evitando commenti eccessivamente critici o elogiativi e di sbilanciarsi più di tanto su aspettative e indubbie necessità di dialogo arrivando al faccia a faccia che seguirà la conoscenza reciproca, già ben stabilita – secondo il leader di governo -, attraverso costruttivi colloqui telefonici.
Albanese ha incontrato Xi tre volte da quando è diventato primo ministro: a novembre dello scorso anno al G20 di Rio de Janeiro; nel novembre 2023 a Pechino e a novembre 2022 durante il G20 di Bali. Tocca ora alla Cina ospitare i colloqui tra i leader, dopo che il premier cinese Li Qiang ha visitato l’Australia nel giugno dello scorso anno.
I preparativi per il viaggio, che sia già a luglio o comunque entro l’anno, sono in corso mentre il ministro della Difesa Richard Marles è impegnato, proprio in queste ore, ad affrontare nuove pressioni dagli Stati Uniti al vertice NATO nei Paesi Bassi, affinché gli alleati aumentino la spesa per la difesa. Come sempre regna l’incertezza e l’imprevidibilità su possibili incontri ravvicinati con il presidente Usa, mentre sembra quasi certo quello con il Segretario di Stato americano Marco Rubio, dato che sull’agenda del vertice dell’Aja ci sono in programma colloqui con il gruppo “Indo-Pacifico Quad” (Quadrilateral Security Dialogue) della NATO composto da Stati Uniti, Australia, Giappone e India. Qualsiasi incontro con Rubio inevitabilmente include oltre al tema clou del vertice, che riguarda l’incremento delle spese per la difesa da qui al 2035, la revisione lampo di 30 giorni dell’AUKUS avviata dall’amministrazione Trump, che dovrebbe concludersi il mese prossimo.
Il Segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth ha dichiarato pubblicamente qualche settimana fa che l’Australia dovrebbe aumentare il proprio budget per la difesa dall’attuale 2% del PIL al 3,5%, ma nel bilancio di marzo, il governo Albanese ha promesso solo un incremento al 2,33% che, quasi certamente, è stato in qualche modo inserito nella revisione dell’accordo sui sommergibili nucleari ordinata dal Pentagono. L’ha indirettamente confermato l’analista sulle strategie militari Usa, Evan Feigenbaum, vicepresidente per gli studi della Carnegie Endowment for International Peace, che ha parlato - in un documento pubblicato questa settimana - che un’“emergenza silenziosa” si sta preparando nei rapporti Australia-Stati Uniti, dato che esistono differenze “intrinsecamente politiche” tra i partner dell’alleanza del patto AUKUS che riguardano più Canberra che Londra.
Una riflessione-avviso che si lega alla revisione in corso sull’accordo sui sottomarini che vede coinvolto anche il Regno Unito. Nonostante le rassicurazioni del leader britannico Keir Starmer (dopo un colloquio con l’amico Trump in Canada), insomma, il futuro del progetto AUKUS non è super-garantito nella sua attuale forma, almeno per ciò che riguarda l’iniziale fornitura di sottomarini nucleari all’Australia. Oltre alle indubbie difficoltà industriali americane nel rispettare gli impegni presi, soprattutto in un contesto di crescente competizione geopolitica e di pressioni interne, all’insegna del mantra “America First”, per ridurre le responsabilità internazionali, c’è indubbiamente la ‘complicazione’ di una visione non più tanto condivisa per affrontare le sfide della Cina che non aiuta di certo la causa. Se poi sul piatto delle divisioni si aggiunge la mancata volontà, o possibilità, del governo Albanese di allinearsi alle richieste di Washington di incrementare le spese della difesa, in un contesto di sicurezza globale sempre più problematico, l’incontro con Trump diventa ancora più importante e l’accordo AUKUS sempre più precario.