E' un mistero, quello che emerge dai dati sull’andamento dei ricoveri e dei decessi per Covid-19 nelle ultime settimane e riguarda le persone di oltre 90 anni. I dati indicano che oltre l’80% dei deceduti ha più di 90 anni e contemporaneamente indicano che nelle terapie intensive non ci sono quasi ricoverati di quell’età. Il monitoraggio indica infatti che i tassi di ricoveri e mortalità sono più elevati nelle fasce d’età più alte, fino ad arrivare a 116 per un milione di abitanti oltre i 90 anni e che in quella stessa fascia d’età il tasso di ricovero nelle unità di terapia intensiva è di uno per un milione di abitanti dal primo luglio scorso; dal 6 maggio al 24 giugno erano pari a zero. Nello stesso periodo e sempre oltre i 90 anni, il tasso di mortalità è progressivamente aumentato da uno per un milione di abitanti, registrato il 6 maggio, a 11 dell’8 luglio fino a 29 per un milione di abitanti del 5 agosto. Nelle terapie intensive non ci sono quasi over 90, ma non muoiono a casa considerando che le persone in questa fascia d’età ricoverate nei reparti ordinari sono moltissime: i ricoveri degli ultranovantenni sono aumentati da 13 per un milione di abitanti del 6 maggio a 110 dell’8 luglio e ai 173 del 29 luglio, per scendere ai 116 del 6 agosto. è quindi opportuno chiedersi come mai gli ultranovantenni ricoverati nei reparti ordinari non finiscano nelle terapie intensive. Il decorso della malattia è lieve; si tratta di forme moderate che non fanno innalzare i parametri di saturazione, come quelli relativi alle trombo-embolie, e gli altri parametri critici che richiedono il ricovero in terapia intensiva. Molti di questi pazienti non manifestano quindi eventi acuti o sintomi clinici gravi tali da giustificare un ricovero in rianimazione. Tuttavia, ciò non significa che non siano a rischio di un’evoluzione sfavorevole della malattia. Prevedere questo rischio è possibile utilizzando test come quelli basati su biomarcatori specifici per Covid-19, come il suPar. Sono test disponibili, ma che non vengono utilizzati nella pratica clinica. Eppure, attraverso questo biomarcatore ormai ben validato sarebbe possibile predire i casi critici, misurando il livello di attivazione nella risposta immunitaria già al momento del ricovero, e questa strategia potrebbe migliorare la gestione clinica riducendo ulteriormente la mortalità tra i pazienti più vulnerabili.
Più di 200 dosi di vaccino senza effetti collaterali
Un uomo ha ricevuto 217 vaccinazioni contro il Covid-19 senza riscontrare effetti negativi sul suo sistema immunitario, che è perfettamente funzionante e presenta alcune cellule immunitarie e anticorpi contro il SARS-CoV-2 addirittura in concentrazioni notevolmente più elevate rispetto alle persone che hanno ricevuto solo tre vaccinazioni. A rivelarlo uno studio che ha esaminato lo stato di salute dell’uomo e gli eventuali effetti dovuti all’ipervaccinazione. Gli scienziati sono venuti a conoscenza del caso attraverso le notizie riportate dai giornali. Finora non era chiaro quali effetti avesse un’ipervaccinazione come questa sul sistema immunitario. Alcuni scienziati ritenevano che le cellule immunitarie sarebbero diventate meno efficienti dopo essersi abituate agli antigeni. Ma, questo non si è rivelato il caso dell’individuo in questione. L’uomo, che ora è stato analizzato dai ricercatori, sostiene di aver ricevuto 217 vaccinazioni per motivi privati. Esiste una conferma ufficiale per 134 di queste vaccinazioni. Di norma, le vaccinazioni contengono parti dell’agente patogeno o un tipo di schema costruttivo che le cellule della persona vaccinata possono utilizzare per produrre esse stesse questi componenti patogeni. Grazie a questi antigeni, il sistema immunitario impara a riconoscere il vero agente patogeno in caso d’infezione successiva. Se il sistema immunitario dell’organismo è esposto con estrema frequenza a un antigene specifico può essere il caso di un’infezione cronica, come l’HIV o l’epatite B, che presenta riacutizzazioni regolari. È stato dimostrato che alcuni tipi di cellule immunitarie, note come cellule T, si affaticano e rilasciano meno sostanze messaggere pro-infiammatorie. Questo e altri effetti innescati dall’abitudine delle cellule agli antigeni possono indebolire il sistema immunitario, rendendolo incapace di combattere l’agente patogeno in modo efficace. Lo studio attuale non fornisce tuttavia alcuna indicazione in tal senso. L’individuo, che è stato sottoposto a varie analisi del sangue negli ultimi anni, ha consentito di svolgere delle valutazioni sui risultati di queste analisi. I risultati hanno mostrato che l’individuo ha un gran numero di cellule T-effettrici contro il SARS-CoV-2. Queste agiscono come soldati dell’organismo che combattono contro il virus. La persona sottoposta al test ne aveva addirittura di più rispetto al gruppo di controllo di persone che avevano ricevuto tre vaccinazioni. I ricercatori non hanno percepito alcun affaticamento in queste cellule effettrici, che sono risultate altrettanto efficaci a quelle del gruppo di controllo che aveva ricevuto il numero previsto di vaccinazioni. I ricercatori hanno, poi, esplorato le cellule T di memoria. Si tratta di cellule in una fase preliminare, prima delle cellule effettrici. Simili alle cellule staminali, queste possono ricostituire il numero di cellule effettrici adeguate. Il numero di cellule di memoria era altrettanto elevato sia nell’uomo che nel gruppo di controllo. Nel complesso, non è stata trovata alcuna indicazione di una risposta immunitaria più debole, piuttosto il contrario. Inoltre, anche la 217esima vaccinazione ricevuta dall’uomo durante lo studio ha avuto un effetto: il numero di anticorpi contro il SARS-CoV-2 è aumentato in modo significativo. Ulteriori test hanno indicato che l’efficacia del sistema immunitario contro altri agenti patogeni non è stata modificata. Sembra quindi che l’ipervaccinazione non abbia danneggiato il sistema immunitario in quanto tale.
L’uomo è stato vaccinato con un totale di otto vaccini diversi, compresi diversi vaccini a mRNA disponibili. Il fatto che non si siano manifestati effetti collaterali degni di nota nonostante questa straordinaria ipervaccinazione indica che i farmaci hanno un buon grado di tollerabilità. Tuttavia, si tratta di un caso singolo. I risultati non sono sufficienti per trarre conclusioni di ampia portata e tanto meno per formulare raccomandazioni per il pubblico in generale. La ricerca indica che una vaccinazione a tre dosi, abbinata a vaccini supplementari regolari per i gruppi vulnerabili, rimane l’approccio preferito.