A maggio un Parlamento umiliato e ridotto a mettere il sigillo alle decisioni dell’esecutivo ha convertito in legge quelle norme pasticciate, peggiorandole.
Tutto questo, in Italia, è passato sotto silenzio. Se ne è dibattuto solo, ma con scarsa incisività, fra le comunità italiane all’estero.
L’attuale normativa italiana sulla cittadinanza risale al 1992 e già allora non rispondeva alle necessità di un Paese che, dal dopoguerra, aveva profondamente mutato volto, con la modernizzazione, il boom economico, il benessere diffuso e l’arrivo dei migranti. Basando la cittadinanza sul diritto di sangue, l’Italia ha continuato a sfornare, all’estero, cittadini che, pur non avendo alcun legame con il Paese, ricevono a casa schede elettorali e referendarie, mentre ha posto ostacoli di ogni genere agli stranieri che vivono e lavorano in Italia e non possono votare nemmeno alle elezioni amministrative.
Il bisogno di modificare quelle norme lo si avvertiva da tempo, ma governi di vario orientamento non ne hanno avuto il coraggio. Nel corso degli anni si è dibattuto su varie proposte di legge, senza venirne a capo, tanto da far affermare, recentemente, a un noto scrittore italo-algerino, che ancora si guarda agli italiani come si fa con i cavalli, distinguendo i purosangue dagli esemplari meno nobili, senza rendersi conto che nel Paese ci sono tanti “italiani senza cittadinanza”, figli di migranti stranieri, che frequentano la scuola e parlano la lingua con l’accento e le sfumature del posto dove vivono, che non hanno la discendenza italiana nel sangue ma sono italiani nel cuore e nella testa.
L’attuale esecutivo ha deciso di intervenire con la scure, assestando un fendente grossolano che ha colpito solo un pezzo della normativa e solo una parte degli interessati, ma non credo che sia cosa saggia decidere su una materia tanto delicata mediante un atto di forza che esautora il Parlamento.
Dal possesso della cittadinanza derivano diritti e doveri fondamentali per l’individuo e per la comunità, perciò le norme che ne regolano l’acquisto non dovrebbero essere dettate da calcoli politici, posizioni ideologiche o convenienze del momento. Per scrivere una buone legge sulla cittadinanza c’è bisogno di saggezza e conoscenza, è necessario disporre di studi approfonditi sulla composizione sociale della popolazione e di analisi accurate sugli scenari futuri; servono il parere degli studiosi e quello della comunità, che si esprime attraverso le organizzazioni della società civile. Il dibattito conclusivo deve avvenire in Parlamento e vi devono poter contribuire tutte le forze politiche; il risultato finale dovrebbe essere frutto di questo sforzo, genuino e collettivo, perché quando si parla di cittadinanza non si tratta di questioni di destra o di sinistra, ma dell’intera nazione e del suo futuro. Sulla cittadinanza, insomma, non si dovrebbero costruire barricate ma tratteggiare gli aspetti salienti di una comunità di cittadini che si riconoscono tali, con uguali diritti e uguali doveri, a partire dal dettato, peraltro bellissimo, dell’articolo 3 della Costituzione repubblicana, che nel primo capoverso recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Non contesto che fosse necessario mettere mano alla legge; sostengo anzi da tempo che sia estremamente necessario farlo, ma il decreto governativo ha affrontato in maniera maldestra la questione della cittadinanza ai discendenti dei migranti italiani nati all’estero, senza mettere mano all’importante questione dei nuovi italiani che vivono nel Paese da stranieri. Inoltre, il provvedimento non distingue fra i discendenti di avi migrati nei secoli scorsi che ancora non hanno intrapreso alcun percorso di cittadinanza, da quelli che, pur residente all’estero, sono già cittadini italiani. Per questi ultimi la legge è calata come una mannaia, provocando una situazione caotica, con figli già italiani e altri che non potranno più diventarlo. Così come è stata congegnata la norma lede il diritto di trasmissione della cittadinanza ai figli per chi, pur essendo cittadino italiano, vive all’estero, mantenendo invece quel diritto inalterato per chi risiede in Italia. Un caso inaccettabile di doppio standard, un pasticcio che, probabilmente, finirà per intasare di ricorsi i tribunali italiani e darà luogo a eccezioni di costituzionalità.
Negli anni in cui vivevo agli antipodi ho imparato ad apprezzare una concezione assai diversa da quella italiana ed europea riguardo alla cittadinanza. L’Australia ha saputo fondare su quel diritto, riconosciuto generosamente tanto ai nuovi arrivati che ai loro figli nati nel Paese, un sentimento generale di uguaglianza e partecipazione, consentendo a gente di tanto diversa provenienza di sentirsi parte integrante della stessa comunità.
A mio parere l’Italia di oggi, profondamente diversa da quella che hanno lasciato i nostri migranti dopo la Seconda guerra mondiale, ha un grande bisogno di prendere esempio da Paesi come l’Australia, per risolvere alcune delle sue più cocenti contraddizioni. Studiare “come hanno fatto gli altri” sarebbe un atto di umiltà pieno di lungimiranza, quindi difficilmente accadrà, perché uno dei difetti nazionali, ben radicato anche nella classe politica, è una certa presunzione, che deriva dalla nostra ricca storia e cultura e ci fa guardare alle nazioni “giovani” con aria di sufficienza.
Eppure il secondo paragrafo dell’articolo 3 della Costituzione repubblicana è chiarissimo nei suoi intenti: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Chiaramente, la difficoltà che molti hanno ad accedere alla cittadinanza italiana e la confusione introdotta a forza mediante una legge mal scritta vanno in direzione contraria al dettato costituzionale.
Questa nuova normativa, che non tiene conto delle reali esigenze del Paese, porta a un crocevia: sulla cittadinanza bisogna decidere verso dove incamminarsi. Per prendere la direzione giusta è indispensabile e urgente aprire un dibattito politico, al momento del tutto inesistente.