ADELAIDE – Si è tanto parlato, soprattutto nelle ultime settimane, di quarantena: in hotel, a casa, chi propone di riaprire strutture in località remote. Proprio da una persona in quarantena si è scatenata quella che poteva essere forse la prima vera ondata di COVID-19 in South Australia, prontamente fatta rientrare anche grazie a misure contenitive immediate.
Ma cosa vuol dire essere in quarantena in un cosiddetto ‘medi-hotel’? Lo abbiamo chiesto a Luciana d’Arcangeli, rientrata dall’Italia lo scorso mese e che per un soffio ha scampato la doppia quarantena, a seguito del focolaio di Parafield.
Luciana ci racconta che “la cosa più difficile del rientrare è stare dall’altra parte del mondo e non avere nessun interlocutore” e prosegue: “Si viene indirizzati a una pagina internet, con indicazioni vaghe”. Dal racconto di Luciana, si è letteralmente bombardati dalle notizie dei tanti che non riescono ad arrivare in Australia. A questo si aggiunge che la compagnia aerea continua ad aggiornare i voli, “anche di un quarto d’ora o cambiando il numero di volo”; questo non solo non aiuta a tranquillizzarsi ma, nel caso di Luciana, ha significato uno scalo a Doha di oltre dieci ore. Per questo il suo rientro a casa non le ha risparmiato l’esperienza in pod, quelle capsule in cui trascorrere le ore dello scalo, riposandosi nel rispetto della propria privacy.
Luciana d’Arcangeli, per via delle tante allergie alimentari di cui soffre, ha chiesto di poter effettuare la quarantena al domicilio, ma non le è stata accordata e quindi è partita da Roma, senza nemmeno sapere dove l’avrebbero alloggiata; arrivata ad Adelaide, su un volo nel rispetto del distanziamento sociale e munita di mascherina, è stata letteralmente scortata al suo hotel. Non si scende subito dall’aereo, come ci racconta, prima viene spiegata tutta la procedura dei controlli, dal cambio della mascherina, alla misurazione della temperatura. Poi tutti in fila, si inizia a salire, uno a uno sull’autobus, scortati dalle guardie. E qui, una prima bella sorpresa: durante il tragitto verso l’hotel, l’autista fa da guida turistica, illustrando le bellezze della città. Un’attenzione che rilassa l’atmosfera, destinata a cambiare repentinamente una volta arrivati in albergo, nel caso di Luciana il ‘Playford Hotel’.
“Tantissime persone ad accoglierci, indossando mascherine, guanti, occhiali, la polizia a presidio della strada”, racconta Luciana.
Il direttore dell’hotel però sale a bordo del bus e dà il benvenuto agli ospiti e li rassicura sul trattamento di favore che riceveranno nei giorni successivi, nel tentativo di tranquillizzarli. Quindi il viaggio in ascensore, “comandato a distanza, andava da sé”, ci racconta Luciana.
“All’arrivo al piano ancora uomini bardati, mi sono sentita una bomba biologica”, spiega divertita. Entrata in stanza, enorme, con letto king size e e tv maxischermo, la porta si chiude alle spalle, in corridoio una guardia a ogni angolo. Quindi, tampone il primo giorno e da quel momento il gioco si fa serio: 14 giorni da trascorrere in stanza.
“Ogni giorno arriva un poliziotto a controllare, l’infermiera tutti i giorni chiama per chiedere delle condizioni psicofisiche”, racconta Luciana. Ogni giorno vengono organizzati giochi online, con gli altri “quarantenati”, con bottiglie di vino in palio. Un gruppo Facebook chiuso per tutti gli altri ospiti, con cui ci si conosce e si socializza senza vedersi mai. In cucina personale aggiuntivo, dedicato a soddisfare i palati dei propri ospiti: “Ho mangiato più volte filetto di wagyu”, racconta Luciana. Nota critica per i fumatori: in camera non si fuma, nemmeno in quarantena.
“In un albergo è scattato l’allarme antincendio, la gente non sapeva più cosa fare – continua Luciana –. All’arrivo dei nuovi bus, scatta una sirena e una registrazione annuncia che tutto l’albergo è zona rossa, come in un film di fantascienza, una situazione di grande ansia”.
Parlando con Luciana d’Arcangeli emerge un però un aspetto curioso: pur essendo andata in Italia e avendo avuto conoscenti e vicini che si sono ammalati di COVID-19, la percezione della pericolosità e della prossimità del virus è stata massima ad Adelaide: “Quando ho capito che il mio dirimpettaio in hotel era positivo – dice –, condividere l’aria con un ospite positivo mi ha fatto un certo effetto”. Da quel momento non ha più acceso l’aria condizionata e ha alzato di nuovo la guardia, indossando sempre la mascherina, ogni volta quando doveva aprire la porta. Un’altra particolarità della quarantena?
“Dal terzo giorno, inizi a creare una tua routine quotidiana, a dividere la giornata, per superare la quarantena, un po’ come in collegio”, prosegue Luciana. È maggiore la sensazione di stress o di relax? “Personalmente venivo da quattro mesi intensi, quindi per me è stato più di scialo. Sono riuscita anche a finire dei lavori e a riprendere il ritmo lavorativo – risponde Luciana –. Verso la fine sentivo però il bisogno di passeggiare e guardare in lontananza, ma superata la prima metà della quarantena, è prevalsa una sensazione di sollievo”.
Il canale Facebook ha aiutato molto: “Un gruppo chiuso per scambiarci informazioni, carinerie, fatti divertenti che stavano avvenendo. Come una sera che ho sentito una bambina cantare a squarciagola Jingle Bells da una finestra, e ho espresso nel gruppo la mia solidarietà con i genitori della bimba”.
Per Luciana la quarantena è stata un’occasione per conoscere, anche se virtualmente, persone che nella vita ‘reale’ forse non incontrerebbe mai: “Come un parrucchiere, che aveva molte parrucche, e ogni giorno pubblicava dei video buffi su TikTok, divertendoci”. Tutti cercavano di rendere il soggiorno più leggero e divertente. “[Il gruppo era] un misto niente male – continua Luciana –: famiglie, imprenditori, immigrati arrivati per ricongiungimenti, giovani turisti, professori universitari”.
Conclusa la quarantena, il ritorno alla nuova normalità, senza aver mai visto in faccia i compagni di avventura, ma con un arrivederci trionfante da parte del personale, tutto schierato all’uscita, a partire dal general manager. Non vedersi o vedersi il minimo indispensabile, ma condividere un’esperienza di vita così eccezionale e così intensa, in cui comunque si interagisce moltissimo, crea un senso di squadra e di cameratismo molto particolare, alla ricerca di una dimensione umana, malgrado la forzata separazione fisica.