Quando agli inizi degli anni ‘50 la migrazione italiana arrivò come un’onda sulle coste del nuovo mondo dell’emisfero australe, a sbarcare erano per lo più uomini. Arrivavano da single, anche se magari a casa avevano già famiglia, trovavano un lavoro e appena riuscivano a risparmiare un po’, chiedevano alle alle mogli di raggiungerli o alle loro donne di sposarli per procura. Alle donne, pensavano, sarebbe stato affidato il compito di accudire la casa e i figli.
Ma ben presto gli italiani fecero i conti con una dura realtà: l’Australia concedeva poco e per cambiar vita, spesso, bisognava lavorare in due. Così le donne si rimboccarono le maniche e iniziarono a intraprendere mestieri capaci di garantire un supporto economico alla famiglia. Dai lavori più umili, unica risorsa quando ancora non parlavano l’inglese, agli impieghi da segretaria o maestra. Il contributo che le donne di allora hanno dato è stato essenziale per la costituzione della comunità italiana e per far capire agli uomini, anche ai più cocciuti, che era venuto il tempo di imparare a fare i lavori di casa. E se non erano pronti a condividere le competenze domestiche, almeno dovevano cimentarsi in lavori come il giardinaggio, la cura dell’orto e passare tempo con i figli.
Le donne di allora, come vedremo nelle storie di seguito, furono anche pioniere nell’affermarsi nel mondo del lavoro raggiungendo posizioni dirigenziali che, fino a quel momento, erano appannaggio degli uomini. Oggi, invece le donne emigrate che arrivano in Australia sono per lo più affrancate da ogni tipo di dipendenza maschile e, sole, preparano la valigia per sfidare, così come fanno i coetani maschi, il nuovo mondo, alla ricerca di un’affermazione professionale che, sempre più spesso, raggiungono surclassando il ‘sesso forte’.
Maria Pirello, emigrata nel 1966
Mamma, donna operaia che mi fece studiare. Ma oggi ancora troppa discriminazione siamo poche anche in politica.
“Molto è cambiato, ma nulla è cambiato per davvero”. Con la citazione che ricorda quella del Principe di Salina, Il Gattopardo, Maria Pirello, nata siciliana, cresciuta australiana, sintetizza quello che secondo lei è il ruolo della donna nella società di oggi. “Certo , in confronto a prima, la donna può sposarsi più tardi o essere single, ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto nel mondo lavorativo. E non mi riferisco solo alla discriminazione salariale, ma soprattutto a quell’invisibile barriera che ancora frena le donne dal raggiungere le posizioni al vertice della piramide. Si, alcune raggiungono i posti di comando, ma è ancora troppo difficile e non c’è uguaglianza nella scalata. Guardiamo, per esempio, alla politica e contiamo quante donne fanno parte degli apparati dirigenziali dei Labouristi o dei Liberali. Pochissime”.

Maria è arrivata in Australia negli anni 60, quando aveva appena sei anni. E qui ha costruito, a dispetto dei tempi, una brillante carriera professionale. “Quando sono andata all’università c’erano pochissime donne e per lo più figlie di famiglie ricche e affermate. All’epoca concezione comune era che una donna dovesse lavorare in ufficio, come segretaria, o al massimo come insegnante perché presto o tardi avrebbe dovuto sposarsi, avere figlie e lasciare l’impiego. Io, invece, spronata da mia madre che era una donna molto moderna per i suoi tempi, preferii continuare gli studi e mi laureai in lettere, poi presi la specializzazione in psicologia”.
Per anni Maria ha lavorato come psicologa nelle scuole e da oltre dieci anni fa parte del direttivo del CoAsIt e in questa duplice veste, è sempre stata a contatto con la comunità italiana e conosce bene le difficoltà che le donne italiane d’Australia hanno dovuto fronteggiare, soprattutto agli inizi della migrazione: “c’era il problema della lingua, che nessuno o quasi parlava, e si viveva in una società dove le donne australiane nel mondo del lavoro erano pochissime. Fu una sfida molto dura quella delle nostre emigrate. Ricordo da bambina come il mio più grande desiderio fosse che mia madre lavorasse di meno per trovarla a casa quando ritornavo da scuola. E, invece, alla fine ho imparato a cucinare le lenticchie in modo da fargliele trovare pronte al rientro. Per me lei è stato un modello di riferimento, mi sostenne anche quando decisi di sposare un uomo divorziato che non era neanche italiano. Una vera rivoluzione per quei tempi”.
Maria ha avuto due figlie e ora è in attesa di un nipotino. “Il consiglio che ho dato alle mie ragazze? Semplice: non lasciate che il vostro essere donna vi freni”.
Adelina D’Acquino Manno, emigrata nel 1978
La necessità di supportare la famiglia spinse gli uomini a emanciparsi. Grande cambio con la seconda generazione
Giunta dalla Sicilia all’Australia accompagnata dal marito e da due figli, una di dieci mesi l’altra di tre anni, Adelina D’Acquino Manno, arriva a Sydney con una qualifica di infermiera ottenuta in Italia. “A quei tempi, però, in Italia, non era semplice lavorare per una donna. Se poi si arrivava da un paesino siciliano, allora era ancora più complicato. Appena si pronunciava la parola lavoro, in famiglia scoppiava la guerra. E non erano solo gli uomini ad essere contrari, a volte lo erano anche le stesse donne. Poi, però, arrivati in Australia la mentalità è cambiata”. E il cambiamento, spiega Adelina, è stato un cambiamento di necessità.

“Non si poteva star qui senza lavorare, e allora le donne italiane si son date da fare. C’era il problema della lingua, perché nessuno all’epoca parlava inglese, quindi abbiamo tutte iniziato da lavori, diciamo così, più umili. Io ho trovato un impiego in lavanderia, altre in fabbrica. Ho impiegato molto tempo prima di riuscire ad acquisire le competenze linguistiche che mi consentissero di ritornare al mio vecchio lavoro. E quando ci sono riuscita, ho preferito cimentarmi nella sterilizzazione degli attrezzi di sala operatoria. E piano piano ho fatto carriera fino ad arrivare a dirigere il reparto del Royal North Shore Hospital”.
Un successo personale poco comune per le donne dell’epoca, soprattutto per quelle arrivata dall’Italia e che qui, in Australia, hanno dovuto superare barriere linguistiche e pregiudizi prima di affermarsi nel mondo del lavoro. “Devo dire che la necessità ha anche spinto i mariti italiani a cambiare la loro mentalità e a supportare le mogli anche cimentandosi in lavori di casa. Forse non erano pronti a dividere equamente le responsabilità della casa, ma almeno cominciarono a cimentarsi nel giardinaggio e nella cura del giardino”. Una differenza nel ruolo della donna e nel modo con cui si guardava alle donne, secondo Adelina, la si è iniziata a vedere, marcatamente, con la seconda generazione. “Perché la prima generazione di italiane nate qui, era costretta a uscire solo con i genitori. Le ragazze partecipavano agli eventi delle associazioni italiane e lì incontravano i ragazzi. E quasi tutte si sono sposate con italiani. Quest’abitudine è scomparsa con la seconda generazione”.
Nonostante i grandi passi in avanti fatti, però, per Adelina l’uguaglianza è ancora lontana, “soprattutto per quello che riguarda le paghe. É inconcepibile la differenza fra uomo e donna. Io alle mie figlie ho sempre detto di non badare a differenze e di far tutto quello che vogliono senza pensare se è per donne o per uomini, Perché questa differenza non esiste”.
Mariantonietta Tessuti, emigrata negli anni ‘50
Raggiunsi mio marito dopo un matrimonio per procura. Ma ci risposammo lo stesso giorno che arrivai a Sydney.
Mariantonietta conosceva già John Spada ma, quando lui decise che era giunto il tempo di emigrare, lo fece da solo. Come molti facevano in quegli anni. Poi, quando capì che l’Australia poteva essere il luogo giusto dove vivere e mettere su famiglia, allora chiese a Mariantonietta di raggiungerlo. “Però dovevamo sposarci prima. Quindi per evitare costi e lungaggini, lo facemmo per procura. Ottenemmo i documenti necessari per la mia partenza e lo raggiunsi”.

Quello della procura, fu un espediente necessario perché la migrazione, a quei tempi, per le donne non era semplice. Né per la burocrazia, né per le famiglie che si lasciavano a casa. “Il giorno che arrivai a Sydney, avevo già pronto l’abito da sposa. John aveva organizzato tutto: la chiesa, i fiori, il banchetto. Il mio arrivo qui coincise con il nostro secondo vero matrimonio”. Per Mariantonietta l’inizio fu difficile. “Non parlavo inglese e non conoscevo nessuno. Mio marito non voleva che lavorassi, però aiutavo l’attività di famiglia che lui aveva messo su: una piantagione di tabacco. Preparavo ogni giorno il pranzo per gli operai che lavoravano con noi”. Mariantonietta ha, poi, seguito il marito nella altre avventure, compreso il ritorno per qualche anno in Italia dove “lavoravo al bar che avevamo aperto e mi occupavo anche della contabilità”. Mariantonietta è una donna e moglie felice “io ringrazio sempre per quello che ho avuto, ma ai nostri tempi le cose andavano così. Se tornassi indietro con la mentalità di oggi, chissà...”
Valeria Bellan, emigrata nel 2013
Qui per un dottorato portando il fidanzato con me. Lui ha sacrificato la sua carriera per la nostra famiglia.
Il segno del cambiamento dei tempi e di come il rapporto fra donne e emigrazione sia cambiato, è testimoniato dalla storia di Valeria che, chiamata in Australia per un dottorato, ha portato con sé l’allora fidanzata e oggi marito.

“Sono arrivata qui con una storia un po’ diversa dal solito - sorride - durante il mio percorso di studi a Milano il mio tutor collaborava con un docente australiano che mi invitò a frequentare il terzo anno di dottorato qui”. Partita ben sette anni fa col fidanzato nonché attuale marito, Valeria, adesso, ha un dottorato in neuroscienze cognitive, è ricercatrice università, professoressa e madre. Donna in carriera con un bambino “C’è ancora molta differenza tra uomini e donne anche se, almeno per quanto riguarda il mio settore, trovo ce ne sia decisamente meno in Australia".
“Nel mondo accademico c’è sicuramente discriminazione: in un recente resoconto riguardo recensioni degli studenti in Italia ci sono purtroppo tanti commenti inerenti l’aspetto fisico dei professori, soprattutto se di sesso femminile. Per quanto riguarda conciliare il lavoro e la famiglia essere distante da casa è sicuramente uno svantaggio, perché non ho l’aiuto di nonni, zii e amici. Devo dire che l’Università non ha mai ostacolato la mia maternità: anzi mi ha dato la possibilità di rientrare a cinque mesi dal parto con un orario part-time per poi riprendere a tempo pieno, possibilità di allattare con un ufficio per me, sono stata molto fortunata” e conclude “Mio marito, poi, è stato ed è esemplare: ha rinunciato alla sua carriera per stare con nostro figlio, per me”.