KATMANDU - Ciò che era iniziato come una manifestazione pacifica di studenti contro il divieto governativo dei social media si è rapidamente trasformato in un’ondata di rabbia collettiva che ha fatto emergere anni di frustrazione legata a corruzione, nepotismo e mancanza di opportunità economiche.
La decisione del governo di bloccare piattaforme come Facebook, X e YouTube è stata il detonatore, ma le radici del malcontento affondano nella stagnazione del Paese. “Tutti cercano lavoro all’estero. Qui regna la povertà, le strade sono in condizioni pessime e i politici si intascano i soldi”, ha dichiarato a ABC la ventiduenne Darshana Padal, esprimendo un sentimento condiviso da gran parte della giovane generazione.
Le autorità hanno reagito con brutalità: la polizia ha usato lacrimogeni, proiettili di gomma, idranti e perfino munizioni vere. Almeno 19 persone sono state uccise e centinaia ferite. Nonostante il governo abbia fatto marcia indietro sul bando dei social, la rabbia non si è placata. Le folle hanno preso d’assalto il parlamento, imbrattandone i muri con scritte come “Oli è un ladro, lascia il Paese”, mentre la residenza del primo ministro veniva data alle fiamme. Durante i disordini, l’abitazione dell’ex premier Jhalanath Khanal è stata attaccata e la moglie, Rabi Laxmi Chitrakar, è morta per le ustioni riportate.
Le dimissioni di Oli hanno disinnescato solo parzialmente la situazione. Attivisti come Dovan Rai parlano di “un piccolo passo in avanti”, ma altri manifestanti chiedono giustizia più severa: “Non ci basta la sua uscita di scena, vogliamo che sia arrestato per aver ordinato di sparare agli studenti”.
Il cuore della protesta resta la percezione di un sistema democratico tradito. Dal 2008, quando il Paese ha abolito la monarchia, i governi si sono succeduti senza stabilità, dominati da leader anziani e da strutture di potere nepotistiche. I cosiddetti “nepo kids”, figli e parenti dei grandi politici che ostentano ricchezze in un Paese dove milioni sopravvivono grazie alle rimesse dall’estero, sono diventati un simbolo di disuguaglianza. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, due terzi dei nepalesi non hanno accesso a sistemi di protezione sociale, e oltre 3,5 milioni di cittadini lavorano all’estero per sostenere le famiglie.
In questo contesto, il bando dei social media ha mostrato quanto la classe dirigente sia lontana dalla realtà di una generazione che vive e lavora online. Ma la stessa rete è stata anche veicolo di disinformazione, con narrazioni manipolate dai partiti e con la crescente influenza di gruppi monarchici e nazionalisti indù pronti a sfruttare il caos per rimettere in discussione la fragile democrazia.
Ora il Paese è sospeso in un vuoto di potere: il presidente è alla ricerca di un successore e l’esercito ha lanciato un appello alla calma. Sulle pareti del parlamento occupato, i manifestanti hanno scritto “Abbiamo vinto”. Ma resta incerto se questa vittoria segnerà un nuovo inizio o l’ennesimo ciclo di instabilità in una nazione che, a oltre quindici anni dalla transizione democratica, non ha ancora trovato la propria rotta.