La straordinaria ‘era del ferro’, durata più di un quarto di secolo, sta cominciando a mostrare segni di cedimento. Il prezzo del prezioso, almeno per l’Australia, minerale sta gradualmente scendendo e ha raggiunto circa i 100 dollari americani a tonnellata, un arretramento del 30 per cento rispetto a marzo. Una discesa che sta avendo  conseguenze negative anche sul dollaro australiano, via un calo del valore delle azioni delle compagnie minerarie che operano nel settore.

È stato uno dei periodi di ‘boom’ più lunghi e consistenti della storia dell’export australiano, che ha regalato alla nazione generosi livelli di crescita, invidiati dalla maggior parte del mondo industrializzato.

Con solo una brevissima parentesi di recessione tecnica, dopo quella vera e propria che ‘dovevamo avere’, a detta dell’ex primo ministro Paul Keating, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.

Poi è stato un continuo inanellare di risultati positivi e, nell’ultimo decennio, nonostante le frizioni con Pechino - che ha boicottato un po’ tutto quello che poteva boicottare dei prodotti australiani che poteva trovare anche su altri mercati - il ferro ha sempre tenuto ed è rimasto l’elemento trainante dell’export australiano, assieme al gas.

Dall’arrivo a Canberra di un’amministrazione laburista sono in corso complicati negoziati per un lento ritorno ad una normalità nei rapporti, sempre sul filo del rasoio, con la Cina, ma per ora la marcia di avvicinamento sembra essere ancora a livello di una ripresa del dialogo: è già qualcosa, ma ci vorrebbe qualche segnale di buona volontà in più per poter parlare finalmente di un punto di svolta.

Il gas tiene sul fronte dell’export, il ferro perde un po’ quota, ma il ‘paese fortunato’ non si smentisce: l’impegno mondiale di decarbonizzare il pianeta ha creato un nuovo futuro per elementi come il litio, il cobalto, le terre rare (un gruppo di diciassette elementi chimici – cerio, disprosio, erbio, europio, gadolinio, olmio, lantanio, lutezio, neodimio, praseodimio, promezio, samario, scandio, terbio, tulio, itterbio e ittrio – essenziali per l’industria tecnologica ed elettronica dei computer, cellulari, delle televisioni, turbine eoliche ecc.) e metalli tradizionali come il rame e nickel.

E l’Australia ovviamente li ha tutti nel suo vasto campionario naturale. Ma fino ad oggi non è riuscita a trarne il massimo vantaggio perché era la Cina a guidare la produzione di veicoli elettrici e batterie e a controllare il 60 per cento della produzione mondiale di litio e il 70 per cento del fabbisogno mondiale di cobalto, che arriva dalla Repubblica Democratica del Congo dove Pechino ha grandi interessi. Il secondo grande produttore è la Russia.

Ma entrambi i Paesi [Cina e Russia] si sono impantanati in due crisi che hanno frenato i loro mercati d’esportazione. Pechino ha messo tutti sul chi va là con i suoi continui ‘avvisi’ sul futuro di Taiwan e la sua vicinanza con Mosca che, a sua volta, si è messa più di metà mondo contro scatenando la guerra in Ucraina. 

E così i riflettori ‘ambientali’ si sono spostati sull’Australia che ha i più grandi depositi del pianeta di litio e ha grandissime riserve di cobalto, oltre che ricavarlo dalle scorie del rame. Già nella seconda metà dello scorso anno la Pilbara Minerals ha aumentato i suoi profitti, via litio, del 1000 per cento: 1,24 miliardi di dollari in sei mesi.

In questo 2023 c’è stata una flessione a causa di un rallentamento della produzione di veicoli elettrici che, assicurano gli economisti, non durerà, e che rimane comunque cinque volte superiore a quella di due anni fa. E c’è un altro fattore positivo da tenere in conto: l’accordo stipulato dal primo ministro Anthony Albanese con Joe Biden riguardo l’accelerazione ‘verde’ del presidente Usa (l’Inflation Reduction Act del valore di 500 miliardi di dollari) che permetterà e incoraggerà forti investimenti americani, anche ‘down under’, nel campo delle energie rinnovabili.

Le prospettive, insomma, per l’Australia in campo minerario stanno cambiando ma rimangono quanto mai positive: il processo sarà lungo, ma non ci saranno particolari drammi in merito, perché il ferro rimarrà ancora a lungo l’asse portante e, nonostante il calo dei prezzi, il suo valore continua ad essere ben superiore a quei 60 dollari a tonnellata che il ministro del Tesoro Jim Chalmers ha inserito, con super prudenza, nei conti di bilancio.

Quindi ampio cuscinetto di aggiustamento sia temporale che finanziario, anche perché la Cina continua a rimanere vicina e ad essere un cliente affidabile, nonostante i suoi investimenti, sempre per quanto riguarda il ferro, in Africa (Guinea) che però generano meno di un settimo del suo fabbisogno importato dall’Australia.

Aggiustamento, comunque, del settore e aggiustamento contemporaneo delle spese interne dopo il ‘boom’ del rimbalzo post pandemico. Sta suonando, infatti, qualche campanello d’allarme sul fronte economico con il segretario del Tesoro, Steven Kennedy che, rivolgendosi alla Commissione stime del Senato, l’altro ieri ha fatto osservare che il passo della crescita ha raggiunto il suo apice in settembre dello scorso anno e che ora la combinazione inflazione-tassi d’interesse comincia davvero a farsi sentire e sta frenando i consumi. 

Una riflessione che fa eco alle osservazioni del direttore del maxi-gruppo aziendale Wesfarmer, Rob Scott, che ha parlato di “luna di miele” post pandemica finita, dato che le sue maxi-catene di negozi Bunnings, Kmart, Coles e Officeworks, stanno registrando nette flessioni di entrate, anche dovute all’impatto che stanno avendo i giri di vite monetari imposti della Banca centrale. Lo stress da mutuo comincia, insomma,  a farsi sentire e né Scott né Kennedy escludono la possibilità che la ‘transizione’ verso la normalità possa portare ad una breve nuova fase recessiva nella seconda metà dell’anno.  

Dita puntate anche sulle timide riforme del governo in fatto di produttività e relazioni industriali, almeno nei commenti di Scott, con spinte salariali che, anche se ancora ben al di sotto dei livelli di inflazione (ieri su questo fronte si è registrato un altro innalzamento, passando dal 6,3 di marzo al 6,8 per cento in aprile), creano pericolose pressioni extra sulle aziende e minore flessibilità nel campo dell’impiego. 

Sempre facendo ricorso alla classica sfera di cristallo, il governatore della Banca centrale, Philip Lowe, ha previsto che l’inflazione scenderà al 3,5 per cento in giugno del prossimo anno dichiarando (nell’audizione davanti alla Commissione senatoriale, poco prima che fossero resi noti i dati di aprile) che i provvedimenti annunciati nel budget per aiutare le fasce di popolazione più deboli non stanno avendo un impatto inflazionistico sul fronte dei prezzi e non sono in contrapposizione con gli sforzi che sta facendo la Reserve Bank dal punto di vista monetario.

Potrebbe anche essere vero e i dati mensili sono spesso influenzati da particolari circostanze che non incidono a lungo termine: ciò nonostante, l’inaspettato rialzo di aprile potrebbe perlomeno offrire la possibilità di un’altra piccola pausa, nella riunione della RBA di martedì prossimo, sul fronte dei tassi.