Una vita ordinaria. Una vita dignitosa. Le piccole difficoltà quotidiane che appartengono a tutte le famiglie: il lavoro, la casa, le discussioni che segnano la routine, la stanchezza che accompagna il giorno, e i sorrisi che si scambiano in compagnia. Essere parte di una comunità, integrarsi e raccontare le proprie gioie e i propri tormenti ai figli, con la speranza di tramandare insegnamenti ai nipoti. La storia di ognuno di noi si scrive così, pagina dopo pagina, come un libro che si riempie lentamente di ricordi, di attimi che diventano memoria per chi ci seguirà. La memoria, custode dei nostri giorni, passa il testimone al più giovane, sfida il tempo e la nostra fragilità e in qualche modo ci rende immortali.

Ma nel cammino dell’esistenza, talvolta qualcosa si inceppa. Le pagine non solo restano vuote, ma ciò che era stato scritto viene cancellato, annullato. E quella realtà, quella quotidianità che ci definiva, svanisce nell’oblio, come se non fosse mai esistita.

Il 23 marzo prossimo, presso il Museo dell’Olocausto di Melbourne, Denis Passalent, insegnante e ricercatore, racconta una storia che, purtroppo, è stata quasi cancellata dalla memoria storica, ma che grazie alla sua dedizione è tornata finalmente alla luce. È la storia di una famiglia del Nord Italia, una famiglia come tante altre, che conduceva una vita serena, ma che viene brutalmente interrotta dalla tragedia dell’Olocausto: quella dei Gentilli.

Moisè Vittorio Gentilli nasce nel 1894 a Mereto di Tomba, in provincia di Udine, dove i suoi genitori si trasferiscono da San Daniele del Friuli un anno prima. Lì, continua l’attività commerciale di alimentari del padre, diventando un punto di riferimento per il piccolo villaggio. Nel 1921, sposa Norma Stella Colombo e, insieme alla sorella Enrica Isabella, al marito Emilio Calò, ai due figli e alla nipotina affidata, tenta di costruire un futuro lontano dalle persecuzioni nazifasciste.

Quella che Passalent racconta è una storia che nasce quasi per caso, mentre legge un libro intitolato Sinagoghe italiane. “Alla fine di questo volume, c’è un paragrafo che parla di un ‘Aron ha Kodesh’, l’armadio di una sinagoga dove abitualmente vengono custoditi i libri della Torah, situato un tempo a San Daniele del Friuli, vicino a casa mia. Non sapevo che lì esistesse da secoli una comunità ebraica così vicina al mio paese”, racconta Passalent.

Inizia a scoprire, incrociando informazioni e documenti online, non solo l’esistenza di questa comunità, ma che alcuni suoi membri vivevano proprio nel suo Comune, Mereto di Tomba. Grazie al centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, il ricercatore riesce a trovare il nome della famiglia Gentilli e la sua storia inizia a emergere.

“Quando ho cominciato a informarmi, nessuno sembrava sapere nulla di questa famiglia. La loro storia sembra essere stata completamente cancellata – racconta Passalent–. Allora capisco che bisogna fare qualcosa per ricostruire questa vicenda. Pian piano, da qui in Australia, inizio a raccogliere dati d’archivio e fonti primarie, e a cercare il modo di restituire a questa memoria un senso concreto, che possa legarsi al presente di chi vive oggi”.

Nonostante la distanza geografica, Passalent non si dà per vinto. Con l’aiuto della comunità ebraica di Trieste, che gli fornisce dati di archivio, e grazie a un viaggio a Gerusalemme, il ricercatore riesce a entrare in contatto con parenti lontani dei Gentilli. “Anche loro sapevano ben poco della storia della famiglia. Grazie a questa ricerca, hanno colmato dei vuoti”, aggiunge Passalent, visibilmente soddisfatto di aver ricucito quel legame perduto nel tempo.

Ciò che affascina di più nella storia della famiglia Gentilli è come, prima della deportazione ad Auschwitz, conducessero una vita ordinaria, piena e soddisfacente, profondamente integrata nella comunità locale. La loro bottega, situata all’angolo della piazza, non era solo un luogo dove acquistare beni di prima necessità, ma un punto di riferimento per tutti, rispettato e apprezzato.

Uno dei membri della famiglia, inoltre, ricopriva incarichi di responsabilità nelle amministrazioni comunali. A differenza di altre comunità ebraiche, spesso più isolate, i Gentilli erano immersi nel tessuto sociale, apprezzati e benvoluti da tutti. La loro integrazione nella vita friulana di quei tempi appare davvero sorprendente.

Nel 1930, la famiglia si trasferisce a Venezia per gestire la casa di riposo del ghetto, dove rimarrà fino al 1943. Tentano poi la fuga verso la Svizzera, ma vengono fermati dalle guardie di Finanza italiane a Olgiate Comasco nel dicembre dello stesso anno. Da lì vengono portati a Fossoli, dove il 22 febbraio 1944 saliranno sul treno diretto ad Auschwitz, nel convoglio 8, insieme a Primo Levi.

“Sono stati abbandonati e traditi. Hanno tentato di fuggire tutti insieme,” racconta Passalent. Ogni tappa di questa storia è per lui una piccola vittoria. Ha percorso le stesse strade che i Gentilli hanno attraversato, visitato i luoghi da cui sono passati: “I luoghi che hanno toccato sono quelli dove sono cresciuto io. I paesaggi che hanno visto sono i miei. Questa ricerca è diventata una parte della mia vita. Sento che il mio dovere è restituire loro una memoria che è stata ingiustamente dimenticata”, aggiunge, emozionato.

Il suo è un lavoro certosino, fatto di scoperte, di momenti di gioia e di dolore. “Ho riso quando ho scoperto che il padre di Moisè Vittorio, quando andava dal barbiere, gli regalava una bella bottiglia di grappa in segno di gratitudine. Quei piccoli gesti di vita quotidiana in un piccolo paese mi hanno toccato profondamente”, dice.

Ma la tristezza prevale quando pensa al futuro che è stato loro strappato: “Ho sofferto quando ho letto la lista dei beni che i Gentilli avevano con sé quando sono stati arrestati. Orologi, fedi nuziali, oggetti che raccontano una vita che è stata tolta.”

Immaginando il loro arrivo ad Auschwitz, Passalent non riesce a trattenere la commozione. “Li immagino scendere dal treno, esausti, impauriti, confusi. Quattro giorni di viaggio verso l’ignoto. Tutto è stato disumanizzante”.

Nonostante tutto, Passalent ha ricevuto il sostegno delle amministrazioni comunali locali, che nel 2024 e nel 2025 hanno reso omaggio alla famiglia Gentilli con le pietre d’inciampo, quelle placche di ottone lucente che segnano i luoghi dove sono vissuti i perseguitati. Le pietre sono state posate davanti alla loro casa a Mereto di Tomba, e quest’anno è stata la volta di Trieste, dove ha vissuto Enrica Isabella, la sorella di Moisè.

“Questa ricerca mi ha portato un turbinìo di emozioni. All’inizio, la loro vita era una vita buona, dignitosa, non segregata. Una vita ordinaria e piacevole, che aveva un futuro. Avevano creato qualcosa di importante lì, in quel piccolo paese. Eppure, tutto è stato spazzato via in un attimo,” conclude Passalent.

Grazie alla sua instancabile ricerca, Denis Passalent ha restituito parole a chi era stato condannato al silenzio. Quelle pagine strappate dal tempo e dall’orrore tornano ora a riempirsi di vita, di ricordi, di nomi che rinascono nella memoria collettiva.