Il primo ministro Anthony Albanese si è mostrato genuinamente sconvolto, come tutti del resto, per quello che è accaduto domenica sera sulla spiaggia di Bondi. Nei successivi tre giorni si è presentato più volte davanti a microfoni e telecamere per cercare di rassicurare la nazione, impegnandosi a eradicare l’antisemitismo che comunque, ha detto, “esiste da sempre”. Per questo ha chiesto di non politicizzare la tragedia e ha invitato all’unità nazionale per affrontare le decisioni difficili che saranno prese. Quali però? La prima risposta del capo di governo ad un atto di violenza estrema, ad un attacco terroristico senza precedenti in un’Australia stordita e inorridita, è stata quella di assicurare un inasprimento delle leggi sulle armi. Ben venga, ma era davvero la prima cosa da fare?
Una riunione virtuale, sicuramente dovuta, con i capi di governo dei vari Stati e Territori per parlare di una revisione immediata delle licenze per le armi da fuoco, ‘limitandole’ ai cittadini australiani e dettagli di questo tipo, dopo le ovvie parole di cordoglio per le vittime e la condanna per un attentato assurdo. Ma una specie di negazionismo per ciò che riguarda i motivi che hanno portato a questa tragedia: evitare, cioè, di riconoscere, da subito, quanto l’Australia purtroppo sia cambiata dal 7 ottobre 2023, il giorno del massacro compiuto da Hamas in Israele. Da allora, l’antisemitismo ha contaminato il dibattito pubblico, compromesso l’umanità della nazione, tradito l’ideale del multiculturalismo e reso gli ebrei australiani bersagli di discriminazione, ostilità e violenza nel loro stesso Paese.
Il massacro di Bondi non ha solamente spezzato quindici vite innocenti, ma ha messo il governo e l’intera nazione davanti allo specchio di quello che è successo in questi ultimi due anni, eppure il primo ministro ha preferito per prima cosa pensare alle armi che hanno ucciso e ferito decine di persone: una ‘risposta tecnica’ che ha avuto la meglio sul problema vero della diffusione di un fenomeno che ha aperto una ferita profonda nel tessuto della società australiana.
Dalle parole misurate e gli atti simbolici della deposizione di fiori sul luogo della strage, alla visita in ospedale all’eroe siriano-australiano Ahmed al-Ahmed - che ha sicuramente aiutato a strappare qualche minuto prezioso alla tragedia, salvando chissà quante vite -, si è passati ad una specie di tentativo di minimizzare (ancora una volta) il problema dell’importazione dell’eterno conflitto mediorientale nella nostra vita di ogni giorno. Dall’attacco del 7 ottobre, l’Australia non è stata più la stessa e qualcuno ha sicuramente sbagliato l’approccio per ciò che riguarda la risposta alle lacerazioni interne che sono partite dalle ‘celebrazioni’, da parte di troppi, di quel tragico evento che ha fatto da miccia a una guerra che ha avuto conseguenze profonde e drammatiche anche in questo Paese, arrivando fino al massacro di domenica scorsa.
Un atto di violenza inaudita, reso ancora più grave dal fatto che qualcuno l’aveva previsto (ovviamente non nella forma e nella sua intensità) e gli allarmi sono stati puntualmente ignorati. Nessuno ovviamente poteva fermare l’azione di quel padre e quel figlio pieni di odio e pazzia omicida, ma è legittimo farsi qualche domanda sul contesto involontariamente creato in cui quella pazzia si è scatenata.
E’ sicuramente vero che l’antisemitismo non è nato in Australia con l’arrivo del ‘suo’ governo, ma la ‘risposta’ così superficiale di Albanese alle accuse che stanno inevitabilmente arrivando nei confronti della sua amministrazione è apparsa piuttosto inopportuna: le critiche, in fondo, sono rivolte alla mancanza di una ferma azione per arginare l’onda di odio che ha cominciato a levarsi quando, davanti all’Opera House di Sydney, si sono tenute manifestazioni con slogan apertamente antisemiti, mentre Israele stava ancora cercando di comprendere l’orrore dell’attacco di Hamas.
La strage di Bondi non richiede la stessa risposta che l’allora primo ministro, John Howard, aveva dato con grande fermezza e prontezza al massacro di Port Arthur, in Tasmania, nel 1996. Ben venga, quindi, qualsiasi giro di vite sulle armi, ma le priorità, in questo momento, sono altre e lo status quo degli ultimi due anni per ciò che riguarda la comunità ebraica e la società australiana in generale, non è più accettabile. Il dolore e la rabbia dell’intera nazione per quei quindici morti sulla spiaggia più iconica d’Australia esigono altre risposte da parte di un governo che deve, prima di tutto, mostrare di avere capito fino in fondo quello che è successo; di accettare cioè di avere sbagliato qualcosa anche nel sostenere che antisemitismo e islamofobia siano più o meno la stessa cosa. La strategia di non cedere alle pressioni e agli allarmi, nel nome di un equilibrio politico tra l’indubbia realtà di una comunità che si sente continuamente e costantemente sotto tiro e i sentimenti pro-palestinesi di un’altra comunità, numericamente molto più consistente e sicuramente molto più militante, ha avuto la precedenza su qualsiasi altra considerazione e onesta analisi. Politicamente un successo, che ha nascosto però un problema che domenica è esploso con tutta la sua drammaticità e che richiede azioni ben precise, perché ora è l’intero Paese che le chiede e non solo una comunità segnata da una storica capacità di sopravvivere anche ai momenti più bui.
Alcune misure, non più solo preventive, sono già da mesi sul tavolo del primo ministro, che ha creato - come ha fatto notare per assicurare che il governo non ha mai fatto pendere il piatto della bilancia ideologica da una parte o dall’altra -, dei commissari antisemitismo e contro l’islamofobia. Suggerimenti firmati da Jillian Segal per affrontare il problema dell’odio nei confronti degli ebrei partendo dalle università, dal mondo politico, dalle manifestazioni di piazza (alcune, come quella sul Sydney Harbour Bridge, contro il parere della polizia, dato che hanno trasformato uno dei simboli nazionali in uno strumento di propaganda globale) all’insegna di slogan offensivi e violenti e da una specie di normalizzazione diffusa in ampi settori della società, sono stati seguiti solo a piccolissimi passi, anche se ora si giura che non è così, che la strada dell’eradicazione di un inaccettabile pregiudizio, è stata imboccata senza alcuna ambiguità.
Albanese in questi giorni continua a parlare di solidarietà, di unità nazionale, di tolleranza zero verso l’antisemitismo. Ma le parole, non bastano più. Gli slogan che incitano alla violenza, come “globalizzare l’intifada”, non possono più essere liquidati come semplice libertà di espressione. Devono avere conseguenze legali, così come i messaggi d’odio diffusi sui social media e le manifestazioni neonaziste.
Le principali organizzazioni islamiche australiane hanno condannato senza riserve il massacro di Bondi, affermando che l’antisemitismo non ha alcun posto nella società australiana. Questo messaggio va ora rafforzato e reso il più visibile possibile. Il governo deve andare oltre alle frasi di circostanza, chiedendosi quando e come il Paese è cambiato così profondamente. Ammettere qualche grado di responsabilità sarebbe il primo passo per dimostrare di non avere paura di alienare qualcuno, riconoscendo la necessità di distinguere chiaramente tra le critiche – talvolta sicuramente legittime - ad Israele e l’odio antiebraico sfociato nella sparatoria di Bondi Beach. Il percorso non sarà facile: sarà lungo e pieno di divisioni, ma dopo il terrore di domenica le parole, ripetute senza risultati, hanno perso ogni credibilità e nessuno è più disposto ad accettarle.