Il primo ministro Anthony Albanese l’aveva annunciato qualche settimana fa che avrebbe adottato la tattica di Tony Blair, di inizio millennio, del “molto fatto, molto ancora da fare, molti i rischi” se si cambia governo. Presto detto e presto fatto: in Tv è partita la campagna per ‘promuovere’ il Medicare (che rientra nel capitolo del ‘molto fatto’), mentre con il capo di governo impegnato nei vertici di Lima (APEC) e Rio (G20), i ministri del Tesoro, Jim Chalmers, della Difesa, Richard Marles, dell’Ambiente Tanya Plibersek e dell’Edilizia abitativa Clare O’Neil si sono concentrati sui ‘molti rischi’ dell’alternativa Dutton.

Un tiro incrociato, che fa da prologo alla campagna che verrà, nell’ultima sessione parlamentare dell’anno, che potrebbe diventare anche l’ultima dell’attuale legislatura se si andrà a votare a marzo invece che a maggio.

In agenda, infatti, “l’ineleggibile” Peter Dutton e la sua proposta di sviluppare il nucleare nell’ambito del futuro energetico dell’Australia.

Due ‘rischi’ per il Paese, secondo la strategia laburista, sui quali insistere, anche se entrambi da usare con le dovute attenzioni per non farli diventare una specie di boomerang per il governo. Giocare sull’uomo, infatti, funziona (Abbott, Gillard, Rudd e Morrison ne sanno qualcosa), ma c’è sempre la possibilità di esagerare e gli elettori sono perfettamente in grado di giudicare fino a quando (e quanto) è lecito tirare la corda degli attacchi personalizzati.

Dutton, come dimostrano gli ultimi sondaggi, ormai sta gareggiando quasi alla pari con Albanese e sul nucleare i rischi di non essere in sintonia con una parte dell’elettorato, che non rientra nella vecchia  tradizione laburista ci sono; anche in relazione ai segnali che stanno arrivando da Baku, dove si è giunti alle battute finali di un lunghissimo vertice sui cambiamenti climatici, andando incontro all’ennesima delusione per ciò che riguarda quell’impegno comune che sembra essere, per qualche ragione, sempre impossibile da raggiungere in maniera soddisfacente e concreta.

 A poco più di 48 ore dalla chiusura dei lavori, Stati Uniti e Gran Bretagna (i partner nel maxi-progetto della Difesa, AUKUS), a sorpresa, hanno giocato un brutto scherzo all’Australia laburista mettendo sul tavolo proprio la carta del nucleare, proponendo un’accelerazione più vasta possibile degli sforzi per lo sviluppo delle centrali modulari. E’ partito così l’invito diretto anche al governo Albanese  di essere della partita e firmare la nuova versione  del “Generation IV International Forum (GIF) nuclear agreement” che coinvolgerà almeno una trentina di nazioni: invito che il ministro dell’Energia, Chris Bowen, ha immediatamente respinto (da notare che l’Australia fa già parte del GIF, ma a marzo l’asticella della ricerca sarà alzata) nascondendosi dietro la verità, in questo caso decisamente di comodo, di un’Australia che (al momento) vieta l’uso del nucleare.

E su questo punto scatta subito il ‘rischio’, a prescindere che sia una buona o una cattiva idea quella di aggiungere l’opzione atomica sulla lista della produzione di energia ‘pulita’ - andando oltre all’eolico, al solare e all’idroelettrico - di scarsa coerenza e ‘onestà’ politica: c’è infatti, e l’opposizione lo ha già fatto notare, proprio la questione AUKUS a smentire la teoria dei ‘buoni e puri’, dato che il governo Albanese è un convinto assertore del patto firmato con Washington e Londra sulla nuova flotta dii sommergibili atomici, che prevede prima l’acquisto diretto di alcune unità dall’America e poi di costruirli direttamente, con la collaborazione sempre degli USA e della Gran Bretagna, in Australia.

Aperti, ovviamente, nel nuovo corso anche alcuni porti australiani ai sottomarini a propulsione nucleare, quindi Bowen dovrà sicuramente dare qualche spiegazione un po’ più articolata sull’immediato ‘no’ di Baku e l’uscita, di fatto, dell’Australia dal gruppo GIF sulla ricerca e lo sviluppo del nucleare per scopi civili.

Qualche aggiustamento di tiro dovrà arrivare anche da parte di Marles che ha attaccato preventivamente il progetto delle sette centrali atomiche, che farà parte del pacchetto-energia della Coalizione, parlando di una proposta ‘rischiosa’ che rientra nell’avviso dei pericoli che si corrono pensando ad un Paese guidato da Peter Dutton: “L’energia nucleare – ha affermato il vice primo ministro – è la più costosa fonte di energia elettrica che ci sia al giorno d’oggi nel mondo”. “Ecco perché – ha continuato – è il più grande rischio per il budget di ogni famiglia australiana nel caso di un futuro governo Dutton”.

La portavoce per l’Ambiente, Tanya Plibersek ha subito rincarato la dose biasimando la Coalizione per la necessità di prolungare di una ventina d’anni la vita delle centrali a carbone per sostenere la sua  “fantasiosa idea dell’energia nucleare”. 

Clare O’Neil, invece, nell’ambito dell’azione coordinata di demonizzazione preventiva dell’avversario, ha fatto eco all’intervento del ministro del Tesoro Jim Chalmers che, come aveva già fatto all’inizio della scorsa sessione parlamentare, ha ribadito che Dutton è un leader “rischioso, politicamente spregiudicato e arrogante”, dichiarando in Parlamento che la “negatività piena di cattiveria e la pericolosa arroganza’ del capo dell’opposizione diventerebbero una vera minaccia per tutti “se dovesse diventare il leader di governo del Paese”.  

Toni “americani” e siamo ancora alle prove di campagna. Ovviamente non c’è da stare allegri anche per quello che arriva dalla sponda politica opposta in fatto di puro opportunismo, come l’inaspettata opposizione al tetto dei visti di studio, con la scusa del ‘non abbastanza’, delle principali università avvantaggiate da un provvedimento ‘confezionato in fretta’ giusto per dare l’impressione di fare qualcosa sul fronte dell’immigrazione, basandosi solo sui dati dello scorso anno inflazionati dal post-Covid.

Laburisti indignati, Verdi che applaudono (ed è tutto un dire sulla scelta di Dutton) e promessa di un progetto in proprio sul tema, più ragionato, che rientrerà in un vero nuovo programma d’immigrazione per riportare un minimo di pianificazione su quello che si intende fare per trovare il giusto equilibrio sulle necessità e le possibilità del Paese, per cercare di far fronte anche alla crisi degli alloggi e degli affitti e alle carenze infrastrutturali.

No, quindi, al tetto dei 270mila studenti internazionali dal prossimo anno ed ennesima politicizzazione di un altro settore (con un giro d’affari di oltre 40 miliardi di dollari l’anno) che avrebbe bisogno di un piano concordato nell’interesse di tutte le parti in causa: Stati, università, istituti professionali privati e naturalmente i potenziali studenti, provenienti da ogni angolo del mondo, al momento costretti a puntare su una specie di costosa ‘lotteria’ dei visti a disposizione.