QUITO - La Corte Costituzionale dell’Ecuador ha emesso una sentenza storica la scorsa settimana, dichiarando che la megaimpresa agricola giapponese Furukawa Plantaciones ha mantenuto i suoi lavoratori in condizioni di schiavitù per decenni. E ha ordinato il pagamento di 120.000 dollari a ciascuna delle vittime.
Questo verdetto segna la fine di un lungo processo legale, che ha visto oltre trecento ex dipendenti della compagnia – che produce fibra di abacá (usata nell’industria tessile e conosciuta anche come “canapa di Manila”) – denunciare abusi sistematici, tra cui condizioni di vita disumane, sfruttamento estremo e negligenza istituzionale.
Le testimonianze delle vittime sono devastanti. Molte donne hanno dato alla luce i loro figli in campi di lavoro insalubri e sovraffollati, senza acqua potabile né elettricità, mentre altri dipendenti sono rimasti mutilati in incidenti sul lavoro, senza ricevere alcuna assistenza medica. Nove di loro sono morti mentre aspettavano giustizia.
“Abacaleros liberi!” urla un gruppo delle vittime di queste pratiche, durante una conferenza stampa a Quito.
Furukawa è accusata di aver nascosto che impiegava queste persone attraverso contratti di affitto dei terreni, impedendo alle autorità di rilevare la situazione.
I lavoratori hanno vissuto per decenni nella paura, terrorizzati di perdere la loro fonte di sostentamento, ma alla fine hanno deciso di denuciare.
Uno dei racconti più toccanti è quello di María Guerrero, che a soli due anni fu portata dai suoi genitori insieme con i suoi sei fratelli nelle piantagioni di Furukawa. In trent’anni non era mai uscita e ha avuto lì sette figli, tutti nati senza alcun controllo medico, nemmeno durante il parto. “Ho dato alla luce tutti i miei figli dentro l’azienda, senza alcuna assistenza durante la gravidanza o dopo il parto. È qualcosa che porterò sempre nel mio cuore come una ferita”, racconta María, visibilmente commossa.
Nel 2018, quando la situazione divenne insostenibile, María e la sua famiglia lasciarono il posto, dopo che le fu comunicato che non c’era più lavoro per suo marito. La compagnia, per nascondere le prove dei maltrattamenti, aveva cominciato a distruggere gli accampamenti dove vivevano i lavoratori.
Furukawa, dal canto suo, sostiene che un gruppo di lavoratori ha occupato illegalmente più di 300 ettari di proprietà dell’azienda dal 2019, ma gli ex dipendenti rispondono che si trovano lì per evitare che l’azienda distrugga le prove dei crimini commessi.
Le condizioni di vita nelle piantagioni erano terribili, come racconta Susana Quiñones. “La vita lì era orribile”, afferma senza esitazione. Le sue giornate iniziavano alle tre del mattino e finivano alle dieci di sera, in un ciclo incessante per guadagnare “qualche moneta in più”, un obiettivo che non veniva mai raggiunto. La compagnia, infatti, obbligava i lavoratori a contrarre debiti impossibili da estinguere. “Non c’erano mai possibilità di progresso”, aggiunge Susana.
La rabbia nella sua voce cresce quando racconta come gli ispettori del lavoro non andassero mai nei campi, limitandosi a visitare le sedi aziendali. “Nel centro, dove vivevamo noi, dove c’erano centinaia di schiavi, non è mai arrivato nessuno”, denuncia Susana.
Dopo sei anni dall’inizio del processo, finalmente è stata emmessa la sentenza favorevole ai lavoratori. Furukawa dovrà pagare un totale di 41 milioni di dollari alle vittime e, oltre a ciò, dovrà chiedere scusa pubblicamente, insieme al governo dell’Ecuador, le cui istituzioni sono state ritenute responsabili di non aver preso misure di prevenzione e protezione adeguate.
Nel 2005, addirittura, il ministero del Lavoro aveva premiato l’azienda per le sue “buone pratiche lavorative”, ma il riconoscimento è stato ritirato una volta scoppiato lo scandalo.