Una volta tanto non hanno vinto tutti. Di solito, dopo ogni prova elettorale, i partiti riescono in qualche modo a dare una lettura positiva del risultato e sembra che nessuno, alla fine, perda mai. Questa volta no. Le suppletive di Eden-Monaro hanno lasciato le cose come stanno in Parlamento ma sono state una delusione per entrambi i maggiori partiti. Una delusione per i liberali che non sono riusciti ad approfittare del momento di grande popolarità che sta vivendo il primo ministro Scott Morrison (pur ottenendo uno spostamento di voti a favore della candidata Fiona Fotvojs dell’1,9 per cento). 

Una delusione per i laburisti (mitigata dal successo per il rotto della cuffia) che hanno visto scendere ancora i loro voti primari, del 2,4 per cento, e che si sono aggrappati allo Shooters, Fishers & Farmers Party (balzo in avanti del 5,4 per cento), con il probabile aiuto dei sempre imprevedibili nazionali, per tagliare per primi il traguardo elettorale.

Un nulla di fatto in termini pratici: il voto, su base bipartitica, è rimasto più o meno ancorato a quello di maggio 2019, con gli incendi e il Covid-19 che alla fine non hanno spostato molti consensi. Anthony Albanese, che non poteva permettersi il lusso di perdere, è probabilmente il più sollevato dal verdetto di sabato scorso: una sconfitta avrebbe inevitabilmente dato coraggio ai numerosi ‘dubbiosi’, che stanno ingrossando le fila del partito, sulla qualità della sua leadership, con qualche nostalgia per Bill Shorten. Con Kristy McBain a Canberra al posto del dimissionario Mike Kelly, gli equilibri parlamentari rimangono inalterati e Albanese sa che la partita per il 2022 (con buone possibilità che possa essere anticipata alla seconda metà del prossimo anno) è aperta. Tutto dipenderà dalla gestione della convivenza con il Covid, a meno che non si arrivi davvero ad un vaccino - che sembra un giorno lontano mesi e un altro anni -, che aiuterebbe notevolmente le prospettive elettorali di Morrison.

Eden-Monaro, dunque, che riflette i tempi dell’incertezza che viviamo, i tempi dell’attesa per risposte ad una crisi che ha paralizzato il Paese. Dopo le risposte, positive (non tragga in inganno il caos del Victoria), che sono state finora date dal governo sul piano sanitario, si attendono quelle economiche. L’Australia sta aspettando di capire quando potrà davvero ritornare a vivere qualche tipo di normalità anche dal punto di vista del lavoro, delle attività commerciali, dei grandi progetti. Attende di sapere le prossime mosse, quelle legate alla fine dei cruciali salvagenti, gettati con prontezza nel mare dell’emergenza, del JobKeeper e del JobSeeker. Massicci aiuti finanziari per salvare posti di lavoro e dare la possibilità a migliaia di imprese di continuare in qualche modo la loro attività. 

Morrison e il governo non escono rafforzati dal test di Eden-Monaro: si leggerà in positivo, almeno in casa liberale, il fatto che il primo ministro ha indubbiamente recuperato terreno in una delle aree severamente colpite dagli incendi di dicembre-gennaio, ma ci saranno pesanti strascichi per ciò che riguarda l’alleanza con i nazionali, specialmente per il ruolo che ha recitato in questa partita il vicepremier del New South Wales, John Barilaro che sembra avere fatto di tutto (compreso l’invito a dirottare le preferenze del suo partito verso i laburisti) per far pagare ai colleghi federali la sua decisione di ritirare la candidatura per il seggio in questione, a causa di un presunto mancato appoggio dall’alto. Una ‘vendetta’ che, se confermata, porrà definitivamente fine a qualsiasi ambizione federale per il controverso parlamentare.

Suppletive con la possibilità di un forzato bis per il seggio di Banks (NSW) con l’uscita di scena per motivi personali, ormai dallo scorso dicembre, del ministro dell’Immigrazione e della Cittadinanza (gli incarichi sono momentaneamente nelle mani di Alan Tudge). Non è escluso un definitivo getto della spugna nei prossimi mesi, che andrà a sommarsi all’annunciato ritiro dalla politica, a fine anno, del ministro delle Finanze, Mathias Cormann. Rimpasto d’obbligo quindi nel dopo-budget quando, di fatto, comincerà a tutti gli effetti la strada per far uscire il Paese da una recessione che, in questo caso, era impossibile non avere.

Una recessione sicuramente aggravata dagli ultimi inaspettati sviluppi della diffusione del coronavirus nel Victoria, con un ritorno a rigide restrizioni in 38 sobborghi e il bando di spostamenti in altri Stati che stanno per riaprire i loro confini:  un freno extra alla ripartenza su scala nazionale. 

“Ci saranno altri decessi. È inevitabile”, ha detto il portavoce della Sanità pubblica di uno Stato ripiombato nell’emergenza della pandemia, Brett Sutton, commentando l’esplosione di contagi delle ultime due settimane. Come nel caso della Ruby Princess a Sydney lo scorso marzo,  gli errori, con il Covid di mezzo, si pagano a carissimo prezzo. Ora tocca a Melbourne e le risposte del governo sono esattamente le stesse: muri di gomma in fatto di responsabilità, ricorso all’arte del temporeggiare allontanando ogni risposta al dopo inchiesta, avviata con pronta convenienza, sui motivi del caos. Nel frattempo però bisogna agire perché la situazione sta sfuggendo di mano: gli occhi dell’intero Paese sono puntati sul Victoria alle prese non con una seconda ondata, ma semplicemente con una nuova fase della prima ondata, perché il coronavirus non era mai scomparso dal radar, semplicemente i casi sembravano essere sotto controllo prima di arrivare a quattro clamorosi errori che hanno compromesso tutto e che dovrebbero insegnare qualcosa anche a chi ora sta cominciando ad assaporare un, purtroppo forse non sufficientemente cauto, ritorno alla normalità. Primo fra tutti il clamoroso e ingiustificabile errore di affidare la sorveglianza delle quarantene imposte alle migliaia (aspetto ancora incomprensibile di questa crisi) di australiani o residenti permanenti che continuano a rientrare dall’estero. Errore numero due, e il limitato numero di contagi ufficiali legati all’esperienza sono solo una parte della storia, il tacito consenso alla protesta Black Lives Matter (con infelicissimi bis, anche se con partecipazione ridotta, sabato ad Adelaide e Brisbane). Terzo errore un mancato totale controllo di alcuni focolai identificati con un certo ritardo (Cedar Meats su tutti). Quarta falla, evidenziata dal lockdown in stile cinese, destinato a far discutere in un Paese come l’Australia e in uno Stato che si vanta di essere un modello di progressismo e tolleranza, di nove palazzi multipiano di alloggi popolari, che ospitano circa tremila persone, con una vastissima maggioranza di minoranze etniche. Un abbassamento della guardia inconcepibile, con errori a raffica dell’esecutivo guidato da Daniel Andrews che per mesi aveva dato la falsa impressione di avere perfettamente il polso della situazione e di non avere paura di andare controccorrente nell’interesse dei suoi cittadini. La sensazione positiva nelle ultime settimane è svanita: contagi record come all’inizio dell’emergenza, con l’aggravante fondamentale che nel primo periodo la maggioranza dei casi era ‘importata’ dall’estero, oggi i contagi hanno origine sul territorio e le misure senza precedenti adottate negli ultimi giorni danno poco rassicuranti segnali di improvvisazione e panico.