Missione compiuta, esame superato a pieni voti.

C’è stata la solo momentanea ‘vittima sacrificale’, ma forse anche quell’umiliazione pubblica di Kevin Rudd faceva parte dello ‘spettacolo’ ed era stata preparata per taccuini, microfoni  e telecamere

 A fine ‘show’ ci sarebbe stato, infatti, un altro giro di scuse e la bene rodata ‘macchina delle comunicazioni’ laburista si è messa subito in moto per far circolare la risposta del presidente Usa: “Tutto è perdonato”.

E non poteva essere altrimenti quando allo stesso tavolo attorno al quale sedevano Donald Trump e il primo ministro Anthony Albanese, c’era anche il  Segretario di Stato Marco Rubio, che una volta definì Trump un “dittatore del Terzo Mondo” e il vicepresidente JD Vance che in passato aveva chiamato il tycoon “riprovevole” e “idiota”. 

Martedì mattina (ora australiana) hanno riso un po’ tutti, compreso il primo ministro, alla ‘battuta’, o alla verità, del “non mi piaci” rivolta a Rudd che, probabilmente, è stata comunque meno offensiva, per il noto ego dell’ambasciatore ed ex primo ministro, di quel “Kevin chi?” che l’ha preceduta. Superato il momento di imbarazzo, lo spettacolo è continuato senza ulteriori sorprese. 

Alla fine sicuramente tutti soddisfatti e gran sospiro di sollievo per Albanese che ha lasciato Washington con tutto ciò per cui era venuto: un’alleanza rafforzata, l’inizio di un buon rapporto personale con il presidente USA, una conferma ufficiale di quest’ultimo sul progetto AUKUS (con tanto di ‘ordine’ in diretta al Segretario della Marina, John Phelan, di risolvere “alcune ambiguità” che erano state sollevate dallo stesso Phelan) e un accordo miliardario sui minerali critici.  

In circa 40 minuti il primo ministro ha sbaragliato i critici che lo avevano accusato di avere aspettato troppo per questo incontro alla Casa Bianca e che l’alleanza era stata trascurata, se non addirittura messa a rischio: Trump è stato cordiale ed entusiasta nei confronti di Albanese, che ha definito un leader “molto rispettato”.

“Abbiamo un’alleanza di lunga data, e direi che non c’è mai stato un alleato migliore [dell’Australia]”, ha detto il presidente USA. “Abbiamo combattuto guerre insieme e non abbiamo mai avuto dubbi. È un grande onore averti come amico e un grande onore averti negli Stati Uniti d’America”. 

Parole di benvenuto che mettono fine a qualsiasi dubbio sui rapporti, anche a livello personale, tra i due leader di governo. E il primo ministro ha ricambiato la cortesia ringraziando Trump per il tour - pre-conferenza stampa con complimenti e accordi - della Casa Bianca e facendogli le congratulazioni  per aver negoziato l’accordo di pace in Medio Oriente, definendolo “un risultato straordinario”.

 In pochi importanti minuti Albanese ha mostrato, quindi, con i fatti, la sua capacità di gestire una partnership storica per il Paese, che nessuna ‘individualità’, alla fine, può scalfire. E’ uscito dall’incontro con incredibili ‘bonus’ in fatto di autorità e credibilità, sia a livello nazionale che strategico: il primo ministro, infatti, ora presiede una fase di consolidamento storico dell’alleanza sia in campo militare, con l’avanzamento dell’accordo AUKUS sui sottomarini a propulsione nucleare, sia in campo economico, grazie ad un’agenda congiunta USA-Australia sui minerali critici e una serie di investimenti negli Stati Uniti di parte dei ricchi fondi pensione. 

  Albanese quindi è andato oltre ad un temuto ‘esame’ di sopravvivenza, di non subire cioè ‘danni’ dal punto di vista dell’immagine personale e del Paese, date alcune differenze con l’amministrazione Usa che vanno: dalle spese della Difesa - non in linea con le aspettative di Washington-, al riconoscimento dello Stato di Palestina (capitolo che ha comunque momentaneamente perso impatto dato il piano per Gaza che ha fermato le stragi e aperto qualche minimo spiraglio di speranza per una nuova fase di negoziati); dalla distanza abissale sul fronte energetico alle critiche sui dazi, fino ad una promessa espansione dei legami economici con la Cina e ha puntato, invece, sull’aspetto positivo di un rafforzamento, dove e quanto più possibile, della partnership. 

Consapevole che l’Australia non è certo una priorità per Trump, Albanese sa anche che a Washington esiste una disposizione favorevole verso questo Paese, grazie ad una fedeltà storica mai messa in discussione. Ha poi giocato, con saggezza e una notevole preparazione (proprio grazie al lavoro dietro le quinte svolto dall’ambasciatore Rudd), la carta  - agevolata dalle frenate e minacce cinesi - delle offerte di peso: il piano AUKUS (favorevole finanziariamente agli USA) e l’accordo sui minerali critici. E, quest’ultimo, non è di certo piovuto dal cielo o è stato preparato in quattro e quattr’otto dopo l’irrigidimento di Pechino, ma è stato il frutto di un lavoro di preparazione condotto da Rudd, al di fuori del radar della Casa Bianca, durato diversi mesi. 

 Un risultato finale che è un’autentica umiliazione per la Coalizione. L’intesa personale tra Albanese e Trump ‘brucia’, infatti, in casa liberale (e anche in quella dei nazionali) in quanto non era stata considerata possibile dopo quella lunga attesa per un faccia a faccia che ha smentito tutto e tutti. Non c’è stata alcuna marcia indietro sui dazi, ma alla fine non è stata chiesta e non se l’aspettava comunque nessuno. 

Le implicazioni del doppio accordo militare e economico faranno sicuramente infuriare Pechino, che non ha mai nascosto la sua forte opposizione per l’AUKUS – disegnato proprio come deterrente strategico contro la Cina nell’area dell’Indo-Pacifico, anche se Trump, andando contro le previsioni del Pentagono, ha minimizzato su questo punto, ritenendo che “Xi Jinping non invaderà Taiwan” – e la messa a disposizione di minerali critici e terre rare che contrasterà, anche se non immediatamente, il massiccio controllo cinese sulla catene globali di fornitura dei metalli in questione, definiti il ‘carburante del futuro’ per la loro indispensabilità nello sviluppo e produzione, soprattutto, di nuove tecnologie militari e nel campo delle energie rinnovabili. 

Albanese insomma continua ad alzare l’asticella del suo stesso mandato: il rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti, unito al sostegno incondizionato di Trump nei suoi confronti, hanno inflitto un altro duro colpo alla Coalizione. A malincuore, la leader dell’opposizione Sussan Ley,  ha riconosciuto il valore delle iniziative concordate, si è lamentata del fatto che l’incontro abbia impiegato troppo tempo per essere organizzato e si è arrampicata sugli specchi dando la colpa a Rudd del ritardo, oltre a chiedere la sua testa dopo i commenti di Trump (richiesta che ha poi cercato di annacquare). 

La verità è, che anche in questo caso, si gira a vuoto: a parte le scuse arrivate dopo l’attacco e il ‘perdono’ a riflettori spenti, lo scambio dal ‘vivo’ ha rivelato che il presidente USA non sapeva nemmeno chi fosse Rudd, figurarsi essere ossessionato dai suoi vecchi commenti nei suoi confronti.