ROMA – Ovviamente la maggioranza ha fatto valere l’arroganza dei numeri sulla logica del diritto, approvando una legge scempio che distrugge le nostre comunità nel mondo.
Ma con profondo orgoglio, almeno, abbiamo portato a casa l’approvazione della norma che riapre i termini per il riacquisto della cittadinanza italiana da parte di chi l’aveva persa prima del 1992, al momento della naturalizzazione in un altro Paese.
Voglio essere chiaro fin da subito: questo non vuol dire che la battaglia finisca qui. Né che ci accontentiamo. Personalmente andrò avanti e combatterò per far riacquistare agli italiani emigrati i loro diritti.
Ma oggi, per molti dei nostri connazionali, soprattutto coloro che hanno scelto di diventare cittadini australiani per costruire un futuro stabile per le proprie famiglie, è il momento di poter gioire di una svolta attesa da decenni: si apre la concreta possibilità di riavere la cittadinanza italiana. Non solo un atto burocratico, ma un simbolo profondo di identità e appartenenza.
Il risultato ottenuto è motivo di soddisfazione per chi, come me, ha fatto di questa battaglia una delle ragioni fondanti del proprio impegno politico. Sin dal mio primo mandato in Senato, nel 2013, ho presentato un disegno di legge per la riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza, incontrando sempre grandi difficoltà.
Anche durante il mio secondo mandato, segnato profondamente dalla pandemia, non ho mai smesso di lavorare affinché questa richiesta trovasse ascolto. Appena si è aperta una finestra di opportunità nel corso della discussione sull’attuale decreto legge sulla cittadinanza, io e i colleghi del Partito Democratico ci siamo immediatamente attivati affinché questa giusta istanza fosse inserita tra le modifiche. Non a caso, persino colleghi di Fratelli d’Italia e della Lega – pur appartenenti a una maggioranza che su molti aspetti del decreto ha mostrato gravi chiusure – hanno riconosciuto pubblicamente in Aula che si è trattato di una proposta fortemente voluta e promossa dal Pd. A loro, va riconosciuta onestà istituzionale, e per questo li ringrazio.
È vero, però, che si tratta solo di una vittoria parziale. Il governo e la sua maggioranza hanno scelto, con mio profondo rammarico, di non estendere questa possibilità a tutti coloro che furono costretti a perdere la cittadinanza italiana a causa di norme arcaiche e profondamente ingiuste, ma solo a quelli che sono nati in Italia. Un atto discriminatorio e grave.
Prima della riforma del 1992, infatti, chi intendeva acquisire una cittadinanza straniera doveva obbligatoriamente rinunciare a quella italiana. E prima ancora, vigeva una normativa di stampo ottocentesco, secondo cui le decisioni del capofamiglia – quasi sempre l’uomo – si riflettevano automaticamente sulla moglie e sui figli minorenni.
In pratica, intere famiglie hanno perso la cittadinanza italiana senza che ogni individuo potesse esercitare una propria scelta consapevole. Fra queste ce ne sono tante nate in Australia. E non concedere oggi anche a loro la possibilità di recuperare ciò che gli è stato tolto per ragioni storiche e legislative non imputabili alla propria volontà, è una grave mancanza. È una ferita che resta aperta. Sarebbe bastato poco, un gesto di equità e di riconoscimento, per sanare definitivamente una questione ormai atavica.
Ad aggiungere amarezza, vi è l’introduzione di una tassa di 250 euro per poter riacquisire la cittadinanza. Un balzello che trasmette l’idea che il governo voglia fare cassa anche su un diritto che era stato negato per colpe della legge e non certo di chi, costretto da necessità, ha dovuto optare per diventare cittadino di un altro Paese. È un’imposizione inopportuna, che rischia di allontanare alcuni richiedenti da un’opportunità che dovrebbe essere gratuita e garantita dallo Stato, proprio in nome della giustizia e della memoria.
Eppure, nonostante le criticità, questo risultato resta fondamentale. È un passo avanti che riavvicina migliaia di italiani all’estero alle proprie radici. È un riconoscimento tardivo ma importante, che restituisce dignità e senso di appartenenza a chi ha sempre continuato ad amare l’Italia anche da lontano.
È, infine, una vittoria per la giustizia storica e per la coerenza morale: perché nessun Paese può permettersi di dimenticare i propri figli, né di chiudere le porte a chi, per necessità, ha dovuto abbandonare una cittadinanza ma mai un’identità.
Continuerò a battermi per estendere questo diritto anche a chi ne è stato escluso, perché il compito della politica è riconoscere gli errori del passato e agire con coraggio per correggerli. Ma oggi, possiamo dire che un primo passo è stato fatto, ed è un passo che ci rende tutti un po’ più italiani.