RIO DE JANEIRO – La due giorni del G20 di Rio, che ha riunito 19 leader di altrettanti Paesi, insieme ai rappresentati dell’Unione Africana e quelli dell’Unione Europea, ha portato a una dichiarazione finale di 22 pagine, arrivata dopo una difficile mediazione, che si pone tra gli obiettivi “un’alleanza globale contro la fame e la povertà, una Task Force per una mobilitazione globale contro i cambiamenti climatici e un’azione sulla riforma della governance globale”.

Nonostante le ambiziose intenzioni della vigilia da parte della presidenza brasiliana, che con lo slogan ‘Costruire un mondo equo e un pianeta sostenibile’ ha puntato su temi importanti quali l’inclusione sociale, la riforma delle istituzioni internazionali in chiave più solidale e inclusiva, la transizione green e la sicurezza alimentare nel mondo, la dichiarazione finale congiunta non sembra aver dato risposte concrete e dettagliate, ma solo impegni generici che appaiono più come delle dichiarazioni di intenti.

Non vi è stata dunque la volontà o la capacità di concretizzare le intenzioni presentate dalla presidenza brasiliana di lanciare un’alleanza globale contro la fame e la povertà, per raccogliere e mettere a disposizione risorse e capacità tecniche.

Nonostante i numeri diffusi dalla Banca mondiale, indichino che 700 milioni di persone, la metà delle quali bambini, vivono in condizioni di povertà estrema, cioè con meno di 2,15 dollari al giorno: un livello di reddito che non basta neanche a garantire il cibo necessario per una dieta sufficiente e l’acqua potabile.

Intervenendo alla seconda sessione del vertice, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha ribadito la necessità di cambiamenti nelle istituzioni di governance globale: “Non dobbiamo aspettare una nuova guerra mondiale o un collasso economico per promuovere le trasformazioni di cui l’ordine internazionale ha bisogno”, ha dichiarato.

Nel suo discorso, Lula ha criticato l’“apologia dello Stato minimo” parlando della crisi dei subprime del 2008. “All’epoca - ha ricordato il presidente brasiliano - scegliemmo di salvare le banche invece di aiutare le persone, di salvare il settore privato invece di rafforzare lo Stato. Si è deciso di dare priorità alle economie poderose invece di sostenere i Paesi in via di sviluppo”. 

Al momento della firma della dichiarazione finale del G20, il presidente argentino Javier Milei ha chiesto la parola a Lula per sottolineare le sue divergenze con il testo: “La maggior parte dei governi moderni, per malizia o ignoranza, insiste sull’errore secondo cui per combattere la fame e la povertà è necessario più intervento statale e più pianificazione centralizzata dell’economia”, ha esordito.

“Ogni volta che uno Stato ha avuto una presenza al 100% nell’economia, che è solo un modo carino di chiamare la schiavitù, il risultato è stato l’esodo sia della popolazione che del capitale e milioni di morti per fame, freddo o crimini”. Il presidente argentino ha infine espresso il suo dissenso rispetto all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e alla tassa sui “super ricchi” perché implica, a suo dire, “una disparità di trattamento davanti alla legge”.

Per quanto riguarda le guerre che infiammano il mondo, i leader del G20 hanno deciso che, rispetto all’Ucraina, si accoglieranno “iniziative pertinenti e costruttive che sostengono una pace globale, giusta e duratura”, mentre in Medio Oriente si vuole sostenere il “diritto palestinese all’autodeterminazione” con l’obiettivo di perseguire la soluzione dei due Stati nella Regione.

Dal forum di Rio si è anche levato un chiaro ‘no’ alla ricetta basata su dazi e protezionismo suggerita da Donald Trump, con il presidente cinese Xi Jinping che ha sfruttato l’occasione per cercare nuove sponde tra gli alleati di Washington in Europa e Sud America e imbastire uno scudo contro le politiche commerciali aggressive promesse da Trump.

Il presidente Xi ha incontrato la disponibilità di numerosi interlocutori, da Sholz a Macron, da Milei a Lula, visto che le indicazioni del presidente eletto non minacciano di colpire solo i beni cinesi con tariffe del 60%, ma anche le merci provenienti dal resto del mondo con dazi del 10 o 20%, in una recrudescenza delle misure che già si abbatterono anche sull’acciaio e l’alluminio dell’Unione Europea durante la prima amministrazione Trump. E di fronte alle quali i 27 stanno cercando di rendere più competitive le loro economie, in una “grande sfida”, come l’ha definita la premier Giorgia Meloni. 


“[Per consentire] al commercio e agli investimenti di realizzare pienamente il loro potenziale e di agire come motori della crescita e della prosperità globale –, hanno sottoscritto i leader del G20 nel loro comunicato finale –, occorre un sistema commerciale multilaterale basato su regole, non discriminatorio, equo, aperto e inclusivo, sostenibile e trasparente, con l’Organizzazione mondiale del commercio al centro”. 

Un’architettura con “condizioni di parità e concorrenza leale, in linea con le regole dell’Omc”, in risposta alla deriva trumpiana. Ma al di là delle dichiarazioni, i leader si sono anche più pragmaticamente impegnati in una girandola di bilaterali, soprattutto l’iperattivo Xi, deciso a correre ai ripari di fronte alle crescenti preoccupazioni per le politiche Usa.