ROMA - Di fronte alla situazione umanitaria drammatica a Gaza, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ridato il via libera all’ingresso di aiuti nella Striscia, dopo oltre due mesi di blocco, e 109 camion sono già in arrivo nell’enclave palestinese. 

A gestire la distribuzione sarà la Gaza Humanitarian Foundation svizzero-americana attraverso un nuovo meccanismo, con l’obiettivo di assicurarsi che il cibo arrivi alla popolazione e non cada nelle mani di Hamas. Ne ha parlato l’ambasciatore israeliano a Roma, Jonathan Peled, sottolineando che “il nuovo meccanismo è in fase di completamento”, e assicurando che “ci vorranno alcuni giorni prima che funzioni senza intoppi e al meglio”. E ha ribadito che l’intenzione “è che Hamas non possa più riprendere il controllo della consegna e della fornitura di aiuti umanitari ai palestinesi”.  

Quanto a Paesi e organizzazioni coinvolte, i dettagli non sono ancora tutti noti. “So per certo che l’Unrwa non parteciperà”, ha affermato Peled, facendo riferimento all’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi le cui attività sono state messe al bando da Israele. Sull’eventuale coinvolgimento di Paesi arabi e del Golfo, in attesa dei particolari, l’ambasciatore si è detto a “favore del lavoro regionale, della collaborazione con gli americani, con Paesi e organizzazioni di cui possiamo fidarci”.  

Dopo 592 giorni, ci sono ancora 58 ostaggi nella Striscia, di cui 23 che si ritiene siano vivi. La pressione popolare sul governo Netanyahu perché metta fine alla guerra è molto forte, così come è intenso lo sforzo diplomatico Usa per giungere a un accordo per un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione dei rapiti. 

La speranza scaturita dal rilascio dell’ostaggio israelo-americano Edan Alexander e dalla ripresa dei colloqui a Doha finora non ha dato alcun esito. “Speriamo che la pressione militare su Gaza da una parte e i negoziati a Doha dall’altra portino a un risultato migliore”, con “il rilascio dei nostri ostaggi”, ha affermato Peled. 

Se da un lato Israele mantiene una delegazione in Qatar per i negoziati, dall’altra domenica scorsa ha avviato l’annunciata espansione della campagna militare nella Striscia, suscitando forti critiche. In particolare, ieri, in una dichiarazione congiunta Regno Unito, Francia e Canada hanno esortato Israele a mettere fine alla guerra, minacciando azioni. 

Per l’ambasciatore israeliano, “molte di queste dichiarazioni rispondono più alle richieste dell’opinione pubblica” - “al momento non favorevole” verso lo Stato ebraico - “che a ciò che realmente pensano o credono sia la cosa giusta da fare”. 

Peled ha specificato che “la maggior parte dei Paesi europei e occidentali capisce la posizione di Israele e sostiene il suo legittimo diritto all’autodifesa. Capisce che se non sconfiggiamo Hamas e non ce ne liberiamo, le conseguenze si riverseranno anche sull’Europa”. Quanto agli Stati Uniti, “sono, erano e saranno sempre l’alleato più importante di Israele, l’alleato strategico, e quindi il nostro amico più caro e importante”, ha ribadito Peled, negando così le preoccupazioni sollevate da alcuni su un possibile deterioramento del rapporto con la Casa Bianca, dopo alcuni episodi come l’accordo con gli Houthi, i negoziati con l’Iran, i colloqui diretti con Hamas e per ultimo il viaggio nel Golfo del presidente Donald Trump senza la tradizionale tappa in Israele. 

“Anche tra amici si può discutere, non sempre si è d’accordo su tutto”, ha aggiunto l’ambasciatore, “ma l’obiettivo strategico di garantire che l’Iran non abbia capacità nucleari e che non abbia il potenziale per sostenere organizzazioni terroristiche è esattamente lo stesso che condividono Israele, Stati Uniti, Italia e molti Paesi europei e occidentali”. 

A questo proposito, il rappresentante diplomatico è convinto che bisogna “mantenere tutte le opzioni sul tavolo, sia diplomatiche che militari” per evitare che Teheran acquisisca l’arma nucleare, nella consapevolezza che la Repubblica islamica è un Paese “ingannevole, bugiardo e pericoloso”. La lotta contro l’Iran e le sue ramificazioni regionali è un obiettivo comune non solo di Israele, ma anche dei Paesi della regione per i quali Teheran e i suoi alleati sono una minaccia, ha ricordato Peled. Da qui, l’importanza degli Accordi di Abramo firmati nel 2020 da Emirati e Bahrein, che sono stati “l’inizio o meglio la continuazione degli accordi di pace che Israele ha già firmato con Egitto e con Giordania. E naturalmente, l’Arabia Saudita era il partner logico successivo. Sappiamo per certo, e questo è stato dimostrato, che una delle ragioni del massacro del 7 ottobre da parte di Hamas è stato proprio quello di impedire a Riad di aderire e di estenderli ulteriormente”.