La prima visita di un premier cinese in Australia in sette anni è indubbiamente un segnale importante, come ha detto lo stesso Li Qiang, arrivato sabato ad Adelaide, dei legami tra Australia e Cina “tornati sulla buona strada”.

La revoca di dazi e restrizioni, dopo un periodo complicato nelle relazioni diplomatiche e commerciali dei due Paesi, e la visita di questi giorni del secondo uomo più potente della Cina non devono però fare dimenticare quali siano i rischi di gestire in maniera poco accorta i rapporti con una grande potenza il cui ruolo è diventato sempre più centrale nel complesso panorama geopolitico degli ultimi anni.

Con una situazione pericolosamente calda in corso ormai da troppo tempo, legata all’invasione russa in Ucraina, una condizione che coinvolge e spaventa non soltanto l’Europa, per ragioni geografiche, ma tutto il Patto Atlantico e gli equilibri mondiali, e l’altro fronte drammatico della dura risposta israeliana agli attacchi terroristici di Hamas, non si deve però dimenticare, soprattutto in ottica australiana, che la sfida forse più centrale potrebbe essere quella di gestire la pressione cinese, anche quella militare, che alimenta ciclicamente lo spettro di un conflitto nel Pacifico.

Non è una novità che i rapporti tra Cina e Australia abbiano, com’è normale che sia in un mondo in continua evoluzione, attraversato alti e bassi ma hanno anche avuto una grande capacità di resistenza a urti importanti, e lo dimostra quanto sta accadendo con questo nuovo corso di relazioni instaurato dal governo Albanese. 

Nonostante le tensioni, infatti, l’ormai più che cinquantennale relazione diplomatica tra Australia e Cina sembra continuare a reggere, così come continuano a essere vivi e sostanziali i contatti di natura commerciale.
Con l’attuale accordo di libero scambio tra Cina e Australia, entrato in vigore nel 2015, si è consolidato il più grande mercato di esportazione di beni e servizi dell’Australia, che rappresenta quasi un terzo delle esportazioni totali del nostro Paese. In questi ultimi dieci anni, il commercio di beni tra Cina e Australia è quasi raddoppiato con un tasso di crescita medio annuo di più del 10% e anche la cooperazione bilaterale in diversi settori strategici, quali quello minerario, agricolo, culturale, educativo, scientifico e tecnologico ha prodotto risultati molto interessanti.

Tante luci, insomma e tanti motivi per consolidare queste relazioni, ma anche tante ombre e tante zone grigie dove non si può abbassare la guardia o far finta di nulla. La Cina non può infatti non essere considerata in senso molto più globale, che vada quindi oltre la relazione bilaterale di reciproci vantaggi commerciali, e va collocata nel complicato quadro di un ordine mondiale messo duramente alla prova da questi recenti conflitti. Dopo l’aggressione in Ucraina le democrazie occidentali hanno idenfiticato Vladimir Putin come un nemico dichiarato, e la dichiarazione di sostegno a Zelensky che viene fuori dall’appena concluso G7 pugliese lo conferma. Ma nessuno sottovaluta la potenza cinese, che va però contrastata, con le armi della diplomazia, con politiche interne ed estere dei singoli Stati occidentali in una definizione coerente e concertata tra tutti.

Non semplice, trattandosi di relazionarsi con quello che è, a tutti gli effetti, un regime, che ha una politica, non soltanto una narrativa, non certo vicina al capitalismo liberale dell’occidente. è vero, la Cina di oggi è partner commerciale praticamente di tutti i Paesi occidentali, la globalizzazione e la delocalizzazione nella produzione di beni di massa l’ha resa inevitabile punto di riferimento praticamente per tutto il commercio mondiale, e se questo è da una parte un vantaggio, dall’altro lato ovviamente sposta di molto gli equilibri quando si tratta di rivendicare evidenti disuguaglianze in termini di diritti umani, di politiche climatiche e ambientali e di modelli di civiltà evidentemente differenti.

Al centro di questi equilibri complessi ci siamo anche noi, tra l’altro compressi tra accordi come l’AUKUS e ‘pericolosi’ giochi di guerra nella nostra zona regionale, con il Mar cinese meridionale sempre più caldo, e non stiamo parlando dell’effetto del riscaldamento globale.

Nel corso del viaggio di questi giorni del premier Li Qiang, classe politica e opinione pubblica saranno sicuramente attenti più alle ombre che alle luci e alle note opportunità. Ci si attende infatti che il primo ministro Albanese, pur nell’ambito di un dialogo più rilassato rispetto a qualche anno fa, tenga comunque il punto su alcune situazioni, in primis proprio la sicurezza regionale dell’area sopra citata, con la grave costante minaccia di aggressione contro Taiwan. Ma anche, per restare ‘dentro casa’, a tutte quelle situazioni che hanno a che fare con la sicurezza informatica, a quegli episodi molto pesanti come la condanna a morte comminata allo scrittore  australiano Yang Hengjun, con sospensione condizionale, e il fatto che le autorità di Hong Kong abbiano preso di mira i residenti australiani.

Per molti, soprattutto all’opposizione, potrebbe non bastare quella che è considerata una linea morbida, più volte utilizzata dal primo ministro, ovvero l’obiettivo di “cooperare con la Cina dove possiamo, non essere d’accordo dove dobbiamo e impegnarci nel nostro interesse nazionale”. Se  tutto va bene, un approccio del genere consentirebbe al governo Albanese di lasciare l’Australia in una condizione di possibile neutralità rispetto alle tematiche più delicate e contestate, con conseguenti vantaggi nella continuità delle positive relazioni diplomatiche e commerciali.

Il vero punto di domanda, però, è se si possa restare ‘neutrali’ quando si ha una grande potenza come la Cina che ‘bussa alla tua porta’ con una flotta navale imponente, con tanto di schermaglie e ‘war games’ che hanno coinvolto in troppi episodi equipaggi delle forze armate australiane. Impossibile poi, e più che una domanda suona come una certezza, restare neutrali nel caso in cui Xi Jinping dovesse far diventare reali le minacce di riprendersi Taiwan.

In tal caso relazioni diplomatiche e commerciali durate decenni verrebbero evidentemente messe in discussione, ma a quel punto le preoccupazioni non solo dell’Australia, ma di tutto il mondo, andrebbero ben oltre i pur importanti numeri della bilancia commerciale.