Da oltre vent’anni, l’Australia affronta una sfida cruciale: la stagnazione della produttività, con crescita negativa del Pil per ora lavorata e aumento consistente delle ore lavorate rispetto all’incremento di produzione. Nel 2022-23 la produttività per ora lavorata è calata del 3,7%, mentre le ore lavorate sono aumentate del 6,9 %, secondo i dati della Commissione produttività. Questa inversione rappresenta la flessione più marcata nella serie storica, con il rallentamento economico che conferma l’urgenza di riforme strutturali.
La crescita media della produttività negli ultimi decenni è ben al di sotto dei livelli storici: tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila il tasso annuo superava il 2 %, mentre negli ultimi dieci anni si è attestato intorno allo 0,9%. La Commissione ha indicato come prioritaria una riforma basata su innovazione, digitalizzazione, competenze e concorrenza, mentre diverse voci si sono già alzate nel corso di questi mesi di avvicinamento all’evento della scorsa settimana, tra le tante l’importante società di consulenza strategica McKinsey che ha sottolineato l’importanza di semplificare gli investimenti, ridurre la burocrazia e promuovere tecnologie e capitale umano.
A pochi giorni dall’appuntamento di Canberra, a dare un ulteriore spunto di riflessione al ministro del Tesoro e a chi sarà protagonista della tre giorni di tavola rotonda, la scelta della Reserve Bank, annunciata martedì, di tagliare i tassi d’interesse, per la terza volta in sei mesi, portandoli al 3,60 %, il livello più basso dall’inizio del 2023.
L’inflazione è scesa dal picco dell’7,8% di dicembre 2022 al 2,1% dell’ultima trimestrale, ma con la crescita economica in netto rallentamento, la governatrice Michele Bullock ha avvertito nuovamente che, anche se questi tagli garantiscono un po’ di sollievo a tutti coloro che hanno contratto un mutuo e, in generale, ai bilanci delle famiglie e delle imprese, la tematica della produttività debole resta una grande nube che incombe sul futuro della stabilità economica del Paese.
Un’allerta a cui ha replicato proprio il tesoriere Jim Chalmers che, nel corso di alcune interviste televisive, ha accolto il taglio dei tassi come “un sollievo molto significativo per milioni di australiani” e un segnale positivo sul fronte dell’inflazione, ma non si è nascosto e ha ammesso che la produttività resta “la sfida principale di medio e lungo periodo per l’economia australiana”. Tra le cause sintetizzate nei giorni scorsi dal Tesoriere l’assenza di un adeguato aumento dell’intensità di capitale, cioè di una crescita della dotazione di beni strumentali e tecnologie per i lavoratori in grado di innalzarne l’efficienza; disallineamenti tra competenze richieste e disponibili; e scarsa dinamicità complessiva del sistema produttivo.
Com’è normale che sia, visto il percorso che ha avuto il dato inflattivo, Jim Chalmers ha anche evidenziato come la riduzione dell’inflazione, che era al 6,1% nel giugno 2022, un mese dopo l’insediamento del primo governo Albanese, e ora in poco più di tre anni, si trova al 2,1% sia “un progresso notevole”, frutto di politiche coordinate e non solo degli interventi di politica monetaria della banca centrale. Ma Chalmers sembra ben consapevole che non si possa certo abbassare la guardia in un contesto internazionale “imprevedibile, volatile e incerto”, caratterizzato da tensioni commerciali e instabilità geopolitica.
La tavola rotonda sulle riforme economiche, in programma a Canberra dal 19 al 21 agosto, ha quindi un valore ancora più importante proprio in considerazione del contesto storico in cui avviene. Chalmers, però, in linea con le posizioni espresse dal primo ministro, mette le mani avanti, non sarà l’appuntamento da cui attendersi alcuna grande decisione immediata, poiché la tavola rotonda avrà il compito di “scuotere l’albero per far cadere nuove idee” in grado di rafforzare la produttività, rendere più resiliente l’economia e mantenere sostenibile il bilancio pubblico. Uno spazio di confronto tra governo, imprese, sindacati ed esperti per orientare le scelte future, non un Consiglio intergovernativo sotto mentite spoglie, è stato ribadito più volte, e infatti mancano all’appello i vertici di Stati e Territori.
Di contesto occorre parlare non solo per gli inevitabili scossoni che, in una dinamica di globalizzazione sempre più chiara, arrivano dagli avvenimenti oltreoceano, ma anche per i segnali di crisi strutturale che giungono dall’economia del Paese: tra il 2022 e il 2024 solo il 20% della creazione netta di posti di lavoro è avvenuta nel settore privato, mentre il resto è stato sostenuto dalla spesa pubblica e dall’espansione del settore assistenziale. Nel manifatturiero, migliaia di aziende hanno chiuso nello scorso anno, colpite dall’aumento dei costi energetici, dalla concorrenza produttiva dei mercati esteri e dalla carenza di competenze disponibili.
A dare un ulteriore elemento di riflessione su produttività e, più in generale, sulla qualità della vita degli australiani, In questo quadro, i sindacati confederati dell’ACTU hanno annunciato che porteranno alla tavola rotonda di Canberra la proposta di una settimana lavorativa di quattro giorni senza tagli salariali, sostenendo che i guadagni di produttività e l’innovazione tecnologica debbano tradursi in maggiore tempo libero per i lavoratori. Il modello “100-80-100” (100% della retribuzione, 80% del tempo di lavoro, 100% della produttività), secondo alcuni studi e accademici, ha già dato risultati positivi in fase di sperimentazione all’estero e anche in Australia. Ci sarà ovviamente spazio per il dibattito con le controparti aziendali, con alcune associazioni di imprese che hanno già manifestato scetticismo, temendo cali di produzione e chiedendo invece incentivi agli investimenti, riforme regolatorie e adozione di tecnologie avanzate per migliorare la competitività.
Il punto è che una produttività stagnante non è solo un indicatore economico negativo: è un rischio sistemico e strutturale. Sul piano macroeconomico, una crescita lenta della produttività limita l’aumento dei salari reali, riduce la competitività internazionale e frena la capacità di attrarre investimenti esteri. Se il Paese produce di meno per ogni ora lavorata, i costi unitari di produzione aumentano, mettendo sotto pressione le imprese e comprimendo i margini di profitto. Questo, a sua volta, scoraggia nuove assunzioni e innesca un circolo vizioso di bassa crescita e alta vulnerabilità agli scossoni esterni.
Sul piano sociale, una produttività debole significa meno risorse fiscali disponibili per finanziare sanità, istruzione e infrastrutture. La mancanza di investimenti in questi settori può compromettere la coesione sociale e ampliare le disuguaglianze, accentuando fratture territoriali e generazionali. In prospettiva, il rischio è di trovarsi con un’economia incapace di sostenere un sistema assistenziale adeguato, mentre la popolazione invecchia e la domanda di servizi aumenta.
Per queste ragioni, il dibattito della settimana prossima non potrà limitarsi a enunciare buone intenzioni e a “scuotere l’albero” sperando in idee innovative. Sarà compito della classe dirigente della politica affrontare scelte difficili, bilanciando l’esigenza di tutelare i lavoratori con quella di garantire un contesto favorevole alla crescita e all’innovazione. La sfida sarà trasformare le politiche di stimolo monetario, come il recente taglio dei tassi della RBA, in crescita reale e sostenibile.
Solo un piano organico, che unisca riforme strutturali, investimenti mirati e un confronto costruttivo tra governo, imprese e lavoratori, potrà riportare la produttività e il benessere al centro della politica economica australiana, senza cadere nel rischio di trasformare il dibattito in una inutile e anacronistica lotta di classe.