MONTEVIDEO - Giovanni Salvi, ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è forse il magistrato italiano che, nel corso di una lunga carriera, ha indagato più a fondo sul complesso intreccio di rapporti che univano le dittature sudamericane e le organizzazioni eversive italiane e internazionali degli anni Settanta.
A Montevideo, dove ha preso parte a una serie di incontri dedicati al Plan Condor e alla cooperazione giudiziaria internazionale, ha ripercorso i momenti centrali delle inchieste che portarono a svelare la fitta rete di alleanze e complicità che univa, durante la guerra fredda, apparati di intelligence, gruppi neofascisti e regimi militari in un unico disegno transnazionale di repressione politica.
Secondo l’ex magistrato, quel tipo di collaborazioni è cambiato, ma non è scomparso. “Oggi si basano soprattutto sulla comunanza di alcuni fondamenti ideologici e sull’utilizzo del web come strumento di collegamento tra vari soggetti nel mondo, ma anche come mezzo di penetrazione nelle comunità”, spiega Salvi, evidenziando che invece, durante la guerra fredda, esistevano vere e proprie strutture organizzate, con scambi di uomini, informazioni e anche mezzi per la latitanza.
“C’erano rapporti stretti, ben provati nei diversi procedimenti penali in Italia, tra queste organizzazioni di estrema destra e alcuni governi dittatoriali, in particolare con la Spagna di Franco”, specifica. Dopo la morte del Caudillo, quei legami si trasferirono alla Dina (Dirección de Inteligencia Nacional) cilena, l’intelligence del regime di Pinochet.
Oggi, invece, secondo l’ex magistrato le nuove destre radicali si ispirano a modelli diversi, come la leaderless resistance (piccoli gruppi autonomi che operano senza coordinamento per un obiettivo comune), nata negli Stati Uniti, e a un’ideologia che ripropone temi classici dell’estrema destra della prima metà del secolo scorso: “La purezza della razza, l’odio verso il diverso, l’antisemitismo. Sono elementi che richiamano le radici del nazismo, anche se in forme completamente mutate”, spiega nel corso di una intervista che ha concesso al nostro giornale.
Il caso di Bernardo Leighton, esule cileno vittima di un tentativo di omicidio a Roma nel 1975, resta per Salvi emblematico del modo in cui, in quegli anni, si intrecciavano le operazioni tra servizi segreti sudamericani e gruppi eversivi europei.
Per raccontare il tortuoso percorso delle indagini sul caso, inizia da un elemento che col senno di poi sembra paradossale. “La Corte ritenne che la presenza in Italia, sotto falso nome, di Michael Townley, agente della Dina (Dirección de Inteligencia Nacional, la polizia segreta cilena nel periodo della dittatura di Pinochet, ndr.) e probabilmente anche della Cia, introducesse un elemento di dubbio sulla responsabilità, nel delitto, di Pierluigi Concutelli e Stefano Delle Chiaie, terroristi dell’eversione di estrema destra. In realtà, Townley era il mandante che si servì proprio della cellula italiana per l’operazione”, racconta.
Tuttavia, questo elemento non venne provato ai tempi delle indagini. E solo negli anni Novanta ulteriori verifiche sul caso portarono a un risultato concreto.
“Mi misi in contatto con il giudice Adolfo Bañados Cuadra, che in Cile conduceva i processi sulla dittatura, e grazie agli elementi raccolti da lui, mi rivolsi anche all’Argentina per ottenere ulteriori prove. Mettendo insieme tutte le informazioni arrivai con certezza a identificare Townley come responsabile”, spiega l’ex procuratore.
Salvi ricorda anche, a questo proposito, un episodio legato a Giovanni Falcone: “Per pura coincidenza, l’ultimo atto firmato da Falcone prima di partire per Palermo, dove poi fu assassinato, fu la mia richiesta di assistenza giudiziaria per il Cile”.
Quando l’allora ambasciatore italiano a Santiago, Michelangelo Pisani, seppe che la Corte Suprema cilena aveva respinto la rogatoria, si infuriò e rilasciò una dichiarazione durissima. “Può immaginare: era il 1992, l’Italia era scossa dalla sua morte. Il governo cileno intervenne, la Corte Suprema tornò sui suoi passi e io ottenni l’autorizzazione”, racconta Salvi.
Durante quelle stesse indagini, l’ex magistrato ebbe accesso anche agli archivi dell’intelligence argentina, dove furono trovati documenti dell’intelligence cileni nel 1978. “Riuscii a entrare nel Side e a ottenere gli atti che avevano sequestrato al servizio segreto cileno: credo di essere stato il primo, e forse anche l’ultimo, a cui sia stato consentito – racconta –. Per un pubblico ministero fu come ricevere un trenino a Natale”.
Quel materiale, infatti, consentì finalmente di ricostruire l’intricata rete di coperture e pseudonimi usati dai servizi cileni e argentini per le operazioni all’estero. In particolare, saltarono fuori i nomi di copertura “Muñoz” e “Don Elias”, quest’ultimo identificato con José Eduardo Iturriaga Neumann – ufficiale della Dina e capo della scorta del dittatore cileno – considerato tra i mandanti del tentato omicidio di Leighton.
Il nome “Muñoz”, invece, era già comparso in Italia nel 1976, vent’anni prima, su un appunto trovato durante la perquisizione del covo di via Sartorio a Roma, rifugio di Concutelli, Delle Chiaie e di altri militanti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, due gruppi di terroristi di estrema destra. Insieme a “Muñoz” compariva anche “Andrés”, lo pseudonimo proprio di Michael Townley, e i nomi di coloro che, un anno dopo, nel settembre 1976, avrebbero assassinato a Washington l’ambasciatore cileno Orlando Letelier.
“Purtroppo, i miei colleghi non li capirono, la polizia giudiziaria non fece nulla e soltanto quando io li ho ripresi nel 1992-93 ho potuto mettere insieme tutti questi nomi e avere una prova certa, indubitabile, del coinvolgimento di elementi di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, uniti per l’attentato a Leighton”.
Tra i nodi della trama eversiva internazionale, Salvi richiama anche il ruolo della loggia massonica P2 di Licio Gelli, crocevia opaco di interessi politici e finanziari tra l’Italia e l’America Latina. “Ha avuto un’influenza profonda sulla vita politica italiana fin dalle origini, e i suoi legami con l’Argentina e l’Uruguay furono significativi”, osserva.
Nel ricostruire quegli anni, Salvi ricorda in particolare la figura di Vittorio Occorsio, magistrato ucciso da Pierluigi Concutelli nel 1976, proprio pochi mesi dopo aver indagato su fondi sospetti legati all’acquisto della sede romana della loggia.
“Fu assassinato con una pistola mitragliatrice Ingram che risultava ceduta ai servizi segreti spagnoli - continua -. È probabile, ma non provato in sede giudiziaria, che lo stesso gruppo di fuoriusciti dai servizi franchisti fosse coinvolto anche in altri omicidi politici, come la strage di Calle Atocha a Madrid e che avesse fornito le armi all’estrema destra italiana”. Il massacro a cui si riferisce è avvenuto nel 1977, quando in un assalto a uno studio legale giuslavorista vennero uccisi cinque avvocati vicini a ETA e all’indipendentismo basco in pieno centro della capitale spagnola.
Il caso Occorsio, come altri di quegli anni, rivela quindi un sistema di connessioni che andava ben oltre i confini nazionali.
Dalle reti eversive del passato, il discorso di Salvi si sposta al presente delle organizzazioni criminali transnazionali, in particolare quelle dedite al narcotraffico. Questi gruppi, secondo l’ex procuratore, hanno oggi in molte aree dell’America Latina un potere paragonabile a quello delle mafie italiane degli anni Ottanta e Novanta e metodi non dissimili.
“La violenza simbolica di oggi richiama quella delle stragi di mafia. I corpi impiccati ai ponti in Messico sono messaggi, esattamente come lo erano certi omicidi rituali con i sassi in bocca in Italia”, sottolinea.
Alcune risposte governative a questo fenomeno, soprattutto nella regione centroamericana, hanno però sollevato gravi interrogativi sul rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani.
In particolare, negli ultimi mesi, il presidente Donald Trump ha ordinato di bombardare nei Caraibi tutte le imbarcazioni sospettate di trasportare droga, operazioni che hanno provocato la distruzione di almeno diciotto natanti e la morte di sessantanove persone, senza peraltro fornire prove precise che si trattasse di trafficanti e non di pescatori. Mentre a El Salvador il presidente Nayib Bukele ha condotto una guerra senza tregua contro le bande giovanili, disponendo l’arresto di decine di migliaia di persone spesso senza un regolare procedimento giudiziario e detenute in condizioni duramente criticate dalle organizzazioni per i diritti umani.
“Trump compie atti che sono palesemente in contrasto con il diritto internazionale, e lo fa senza che vi sia alcuna prova, o almeno senza che sia mai stata resa pubblica, che giustifichi tali azioni”, spiega Salvi, sostenendo che “non si può semplicemente distruggere un’imbarcazione: bisognerebbe fermarla, arrestare le persone a bordo e giudicarle, anche per poter ricostruire la filiera criminale”.
Quanto alle misure del modello salvadoregno, “sono chiaramente in contrasto con i diritti fondamentali”, afferma, aggiungendo però che “i Paesi che si trovano ad affrontare queste situazioni vivono momenti di grave difficoltà e si trovano davanti a dei bivi drammatici. Per questo è importante intervenire prima che la situazione degeneri”.
Un avvertimento che rivolge anche all’Uruguay, dove la criminalità organizzata mostra segnali di crescente aggressività. A ottobre di quest’anno, un attentato contro la procuratrice generale Mónica Ferrero - che indaga sui cartelli del narcotraffico e sulle infiltrazioni nelle istituzioni - ha scosso profondamente il Paese: due uomini hanno scavalcato il muro di casa sua intorno alle 5 del mattino, sparando contro l’abitazione e lanciando una granata nel cortile.
“Non si può dire che fosse solo un atto di intimidazione - avverte Salvi -. La procuratrice non va lasciata sola: deve sentire il sostegno dell’opinione pubblica e dello Stato, in tutti i modi possibili”.
Secondo l’ex magistrato, l’episodio dimostra quanto sia urgente rafforzare la cooperazione regionale e la fiducia nelle istituzioni democratiche. “Qui in Uruguay siete ancora in una fase iniziale del fenomeno, soprattutto come canale di transito. Ma è fondamentale che gli Stati che si trovano in questa fase agiscano con determinazione, e sempre nel pieno rispetto delle norme di diritto”.
Dalla sua esperienza di procuratore a Catania, Salvi lega poi la questione criminale a quella migratoria. “Tra il 2013 e il 2014, su circa 170 mila migranti arrivati in Italia, quasi due terzi sbarcarono nelle acque del mio distretto, a Catania - ricorda -. Era una tragedia umana continua, era devastante aprire una stiva e trovarvi i corpi di decine di persone, spesso bambini. L’unico modo per evitare nuove morti era colpire le organizzazioni criminali che gestivano i traffici”.
Durante quegli anni, quindi, sotto la sua guida la procura di Catania sviluppò un’interpretazione innovativa della Convenzione Onu di Palermo del 2000 (trattato multilaterale contro la criminalità organizzata transnazionale), estendendo la giurisdizione italiana fino a 200 miglia dalle coste per poter intercettare le cosiddette “navi madre”, che trasportano i migranti fino ai tristemente famosi barconi che arrivano, o provano ad arrivare, sulle coste europee.
“Abbiamo denunciato l’Egitto per la violazione degli obblighi internazionali previsti dalla Convenzione”, spiega Salvi, ricordando che da quell’esperienza nacque anche un meccanismo di verifica sull’applicazione del trattato.
Sul piano politico, Salvi cita il tentativo - poi fallito - dell’ex ministro Marco Minniti di creare in Libia corridoi sicuri sotto il controllo delle Nazioni Unite. “La situazione degenerò rapidamente, ma l’idea era giusta”, commenta, ribadendo che “bisogna contrastare l’immigrazione illegale, senza mai perdere di vista la dignità e i diritti delle persone”.
Infine, Salvi si è espresso sulla riforma della giustizia e sulla proposta di separazione delle carriere, manifestando una ferma contrarietà. “Ogni Paese ha costruito, nel corso dei decenni, un proprio ordinamento che possiede una coerenza interna. Questa riforma, a mio avviso, non produce alcun miglioramento né sull’efficienza della giustizia né sulla tutela dei diritti”, sostiene l’ex procuratore.
Il sistema italiano, osserva, garantisce già un equilibrio tra poteri e un efficace controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero. “Non è vero che l’appartenenza allo stesso ordine della magistratura giudicante comprometta l’indipendenza del pubblico ministero”, sottolinea.
Per Salvi, in sostanza, “questa riforma non ha nulla a che vedere con i processi, ma con equilibri di potere. Ciò che è stato fatto in Italia negli anni passati non è stato senza conseguenze: c’è ancora chi vuole togliersi i sassolini dalle scarpe”.
Un riferimento diretto a Silvio Berlusconi, evocato anche dai promotori della legge come simbolo di una rivincita postuma. “Non bisogna dimenticare - conclude l’ex procuratore - che Berlusconi non è stato perseguitato: ha commesso reati accertati, in parte prescritti, per i quali è stato anche condannato. Quindi di sassolini da togliersi, non ne aveva proprio”.