Solo conferme nello studio universitario presentato poco più di una settimana fa sulla situazione politica australiana per ciò che riguarda i ‘numeri’ di quella che sempre di più appare una profonda trasformazione politica del Paese, abbastanza simile a quella che si registra in altre parti del mondo occidentale. Il fulcro di questo cambiamento è il declino dei grandi partiti tradizionali (in Australia stiamo parlando di una semplificazione massima, dato che si tratta solo dei laburisti e dei liberali, in partnership con i nazionali) che per oltre un secolo hanno costituito l’architrave del sistema politico federale. La perdita di centralità di queste due maggiori formazioni sta rimodellando la vita politica del Paese e comprendere le cause e le implicazioni di questo fenomeno è cruciale per progettare il futuro. Il sistema politico australiano ha vissuto a lungo una relativa stabilità, data la sua semplicità: due grandi blocchi si alternavano, offrendo visioni politiche riconoscibili e programmi relativamente coerenti.
Tuttavia, dagli anni Novanta, e in modo più significativo nell’ultimo decennio, questa struttura ha iniziato a mostrare segni evidenti di erosione.
Il declino della fiducia nei due maggiori schieramenti politici è misurabile attraverso diversi indicatori: la riduzione degli iscritti, il calo dei voti primari, la crescente volatilità elettorale e l’aumento degli ‘altri’, del numero di deputati indipendenti e rappresentanti di partiti minori. Una tendenza incentivata dal sistema di voto preferenziale, che fino a pochi anni fa garantiva quasi esclusivamente solidità e che ora invece spesso procura rallentamenti e compromessi decisionali.
Una delle ragioni principali del declino dei grandi partiti risiede nel cambiamento socio-economico del Paese. La società australiana di oggi è molto più diversificata, urbanizzata e meno ideologicamente polarizzata rispetto al passato. Le tradizionali basi elettorali - come la classe operaia per i laburisti, il mondo imprenditoriale per i liberali o gli agricoltori per i nazionali - si sono ridotte o trasformate. Nel frattempo, nuovi gruppi sociali, come i professionisti urbani, gli elettori ambientalisti e i lavoratori precari, hanno interessi e priorità diversi che difficilmente trovano corrispondenza nelle piattaforme tradizionali dei partiti storici.
Un’altra causa è la percezione di stagnazione e pragmatismo eccessivo che molti attribuiscono ai partiti maggiori. Gli elettori più giovani, in particolare, lamentano la mancanza di visione e politiche forti su temi come il cambiamento climatico, la giustizia sociale, la qualità della vita e il costo delle abitazioni. Per la Coalizione il problema in più è un distacco sempre più profondo nei loro confronti dell’elettorato femminile. Queste percezioni hanno favorito l’ascesa di movimenti come i verdi e, nelle ultime due tornate elettorali, dei candidati indipendenti, ma sotto la stessa bandiera riformista e ambientalista sostenuta da milionari ‘impegnati’, della squadra non squadra ‘teal’.
Non meno importante è la crisi di fiducia nelle istituzioni politiche creata da scandali, leadership instabili e frequenti cambi al vertice – iniziati dai laburisti nel 2010 e portati avanti con ancora maggiore regolarità e vigore dalla Coalizione, con un altro all’orizzonte – che hanno indebolito la reputazione dei partiti principali. Allo stesso tempo, la diffusione dei social media ha offerto nuove piattaforme di visibilità a forze minori, ampliando l’offerta politica e stimolando il pluralismo ma anche la frammentazione.
Il crollo dei voti primari dei grandi partiti è inversamente proporzionale alla crescita delle formazioni minori e degli indipendenti. Questa tendenza è particolarmente evidente a livello di Senato, dove il sistema proporzionale aumenta notevolmente le possibilità di ‘ingresso’, spesso calcolato via un’elaborata serie di incastri dei voti preferenziali.
Alle ultime elezioni, lo scorso maggio, il governo Albanese è stato riconfermato ottenendo una straordinaria maggioranza: ha conquistato ben 94 seggi che hanno però mascherato la realtà di un consenso diretto limitato. In superficie, insomma, vittoria schiacciante ma voto con radici debolissime (solo del 34,6 percento, due punti in più dei minimi storici del 2022, ma ben al di sotto di quel 49% di Bob Hawke del 1986). Ancora peggiore la situazione sul fronte della Coalizione sprofondata, secondo gli ultimi sondaggi, al 24%.
Numeri in costante discesa con alcuni dettagli più che preoccupanti per il futuro dei liberali: gli australiani sotto i 45 anni non ci pensano minimamente di votare per la Coalizione e alle prossime elezioni gli elettori delle fasce ‘Millennials’ (nati tra il 1981 e il 1996) e Gen Z (1997-2012) supereranno i cosiddetti ‘Boomers’ (1946-64), che sono l’unico segmento della popolazione che ancora preferisce i conservatori ai laburisti, già in netto vantaggio di consensi nella fascia ‘GenX’ (1965-80).
Altre note dolenti per la Coalizione, con difficile recupero, per ciò che riguarda il voto delle donne: lo scorso maggio solo il 28% ha votato per la squadra Dutton (nel 1996 il 53% dell’elettorato femminile aveva sostenuto la corsa alla Lodge di John Howard). I laburisti hanno raccolto il 36% del voto femminile, alla pari del totale di verdi, indipendenti e partiti minori.
Niente ovviamente è mai scontato in politica e non è la prima volta che ci siano clamorose inversioni di tendenza, ma qualcosa è decisamente cambiato negli ultimi dieci anni e l’imprevedibilità gioca sempre a sfavore della ‘tradizione’: il terremoto c’è stato e le scosse di assestamento continuano ad esserci, segnalando che una parte significativa dell’elettorato non si riconosce più nell’offerta politica dei maggiori schieramenti politici.
Il declino di consensi sta costringendo i partiti a pensare a un rinnovamento, per ridefinire il proprio rapporto con la società e rispondere agli interessi e alle diverse esigenze delle nuove generazioni. I laburisti sembrano più attrezzati, in questo momento, per farlo, anche con l’aiuto di indipendenti vari che tendono generalmente ‘a sinistra’; la Coalizione, invece, continua a mostrare di essere più alle prese con se stessa che pronta ad affrontare le sfide che ha davanti. Incredibile, infatti, che dopo una campagna disastrosa e un risultato devastante alle urne, abbia deciso di ripartire da quello zero netto delle emissioni per il 2050, che non è esattamente al centro delle preoccupazioni degli elettori, mettendo in evidenza solo divisioni e tormenti interni, la debolezza dell’attuale leadership e il fatto che risposte, comunque, ancora non ne ha per affrontare il caro-energia che pesa come un macigno sulle spalle di famiglie e imprese. Altro grande fermento sull’immigrazione, con promessi tagli in fase di finalizzazione che solleveranno un altro polverone pubblico e motivi di dibattito più in famiglia (con i nazionali e la corrente più moderata del partito) che con gli australiani che, specie in questo periodo, hanno la loro attenzione rivolta a feste, regali e vacanze. E l’economia? Il vero vecchio punto di forza della Coalizione nella percezione popolare non compare fra le priorità. Eppure, per la prima volta, secondo lo studio effettuato dall’Australian National University e la Griffith University per fotografare il quadro politico australiano, gli elettori hanno più fiducia nei laburisti che nei liberali anche in questo campo. Ley ci aveva provato, nel suo primo intervento ufficiale da leader dell’opposizione, a parlare di cose da fare (e ci sono) per riprendere in mano il dibattito economico-finanziario puntando su spese da far rientrare e produttività da incentivare, ma l’interesse generato, anche tra i colleghi di partito, è durato più o meno un paio di giorni. Poi tutto zero netto e l’attrazione, di alcuni, per lo stile Trump che, tra i mille difetti ha anche quello di non tenere minimamente in considerazione i tre grandi motivi che stanno spostando sempre più i consensi sugli ‘altri’, con ricadute favorevoli solo per i laburisti: il voto femminile, il cambio generazionale, il maggiore livello generale di istruzione degli elettori australiani.