Ma il vero problema di questo ‘passo’ è la blindatura costituzionale dell’iniziativa che, di fatto, potrebbe diventare realtà, con molte meno ansie e contrasti, mediante una legge che potrebbe essere varata in tempi brevissimi, dato il relativo controllo che il governo ha nelle due Camere (nel Senato non avrebbe problemi a trovare l’appoggio necessario dei verdi e di un paio di indipendenti).  

Il ‘sì’ all’idea che verrà presentata nel referendum che il primo ministro Anthony Albanese ha promesso entro la fine dell’anno, continua a fare registrare una maggioranza di intenti, ma il vantaggio si sta assottigliando, tanto che sembra si stia tentando di annacquare un po’ il modello ‘disegnato’ dagli accademici Tom Calma e Marcia Langton per renderlo più appetibile agli elettori (altro servizio a pag.12).

Ma i leader indigeni, che fanno parte del gruppo di lavoro che si sta occupando della preparazione del documento che farà da base per il quesito referendario da sottoporre all’esame finale degli australiani, hanno respinto qualsiasi modifica ai principi del modello inizialmente proposto e insistono specialmente sul fatto che qualsiasi decisione dell’esecutivo, contraria a quanto suggerito dalla futura Commissione consultiva indigena, potrà essere sottoposta ad un giudizio finale all’Alta Corte. Marcia Langton non ha il minimo dubbio in merito: ‘niente limitazioni o clausole politiche, perché il ruolo dell’Alta Corte è proprio quello di intervenire, in caso di necessità e richiesta, rimanendo al di sopra delle parti, nel pieno rispetto della Costituzione’.

E va tutto bene, ma gli australiani sono disposti a dare il via libera a questa nuova realtà che va ad inserirsi nella vita politica del Paese, con il potere (che il primo ministro assicura che non sarà mai usato) di appellarsi a qualsiasi decisione che non sia in linea con quello che la ‘voce’ considera sia nell’interesse della popolazione aborigena? 

Il dibattito è aperto e siamo solo all’inizio di alcuni mesi in cui chi è contrario - per principio, dubbi o anche paura di chissà quali conseguenze che potrebbero emergere dal punto di vista legale – sicuramente cercherà di evidenziare quelle che molti ritengono le troppe incognite e le complessità che accompagnano il progetto.   

A creare qualche perplessità extra sul percorso scelto, ci ha pensato lo stesso Albanese dichiarando che, in caso di bocciatura del referendum, si procederà comunque con la creazione della ‘voce’ mediante una semplice legge che il Parlamento sicuramente approverebbe. Sarebbe uno schiaffo ai cittadini, ma anche l’ammissione di una realtà a portata di mano che non si vuole utilizzare, perché inserire la ‘voce’ nella Costituzione regala maggiore autorità e prestigio all’organismo in questione e sarebbe una svolta davvero storica sia per il Paese sia per la sua immagine livello internazionale.  

A rafforzare la ‘necessità’ di non farsi distrarre da chi sta remando contro con sempre maggiore intensità, ancora una volta è intervenuta pubblicamente Marcia Langton, con un’affermazione dai toni particolarmente forti, a dimostrazione di quanto alta sia la posta in gioco: “Sarebbe tragico se il referendum fosse respinto a causa di una inarrestabile campagna della paura, condotta da persone che non capiscono la gravità della tragedia che stiamo prendendo in considerazione, molte delle quali per niente interessate alla qualità di vita della popolazione indigena australiana”. 

Una vittoria del ‘sì’, quando si arriverà al dunque delle urne, sarebbe uno straordinario bonus politico per Albanese che potrebbe sicuramente ritagliarsi un bel po’ del merito di un successo destinato a cambiare, nonostante i tentativi di minimizzare quello che c’è effettivamente in palio, il sistema di governo in Australia. Una vittoria del ‘no’, pronosticata da un esperto costituzionale come Matt Qvortrup (professore ospite all’Australian National University), avrebbe invece inevitabili ripercussioni negative per la leadership dell’attuale primo ministro, che è stato lasciato abbastanza solo dai colleghi a fare campagna per un cambiamento minato, secondo Qvortrup, dalla obbligatorietà del voto.

“Un sacco di persone ‘forzate’ a votare per qualcosa, generalmente diventano scettiche su quello che viene proposto”, ha spiegato il professore inglese, considerato uno dei massimi esperti mondiali in tema di referendum.     

Probabilmente è anche per questo che il primo ministro si augura di poter presentare un quesito referendario più semplice e diretto possibile, che si basi, più di ogni altra cosa, su una questione di principio morale, sulla necessità e l’importanza di fare un genuino gesto di buona volontà nei confronti di chi ha subito abusi, ingiustizie e drammi che fanno purtroppo parte dalla storia della Nazione, accettando un doveroso riconoscimento costituzionale della popolazione indigena. Poi ci sarà tempo per la politica di trovare i giusti meccanismi per legiferare in merito, fissando paletti ben precisi per mantenere la promessa di rischio zero per ciò che riguarda i poteri decisionali dell’esecutivo in carica e la sovranità del parlamento. 

La voglia di voltare pagina c’è, perché indubbiamente c’è anche la consapevolezza che gli aborigeni hanno patito discriminazione, razzismo e violenze storiche derivanti dalla colonizzazione ed è desiderio condiviso, a stragrande maggioranza, di riconoscere la loro presenza millenaria in questo Continente, la loro storia e cultura, di migliorare la loro condizione economica e sociale, di mettere fine a qualsiasi tipo di disparità nei loro confronti.

Nessun problema quindi per un ente consultivo per uno scambio di idee su come è meglio procedere ed agire in aree che li riguardano direttamente, meglio ancora se c’è anche la possibilità di qualche tipo di controllo delle risorse e delle azioni necessarie. Ma dare il via libera  ad una buona idea, lasciando poi carta bianca ai politici sui sempre importanti dettagli su come procedere, potrebbe non convincere la maggioranza degli elettori e per di più nella maggioranza degli Stati