MILANO - È ormai opinione comune che la decisione di Matteo Salvini di scatenare la crisi in pieno agosto sia stato un clamoroso errore di calcolo politico. 
Anche dentro il suo partito sono in molti che non hanno capito davvero quale sia stata la scintilla che, dopo mesi di resistenze nei confronti di coloro che lo spingevano a staccare la spina, abbia fatto scattare la decisione di far crollare tutto.
Il vicolo cieco in cui quella decisione ha ficcato il Carroccio, ha così creato non pochi malumori interni e la fronda di coloro che vedono con sempre maggior fastidio la guida di Matteo Salvini si è andata ingrossando.
Pur criticando le tempistiche della decisione presa dal segretario, il numero due del Carroccio Giancarlo Giorgetti ha però cercato di serrare le fila del partito, consapevole che qualora si venisse a creare una spaccatura evidente, il rischio sarebbe quello mandare in pezzi il partito. Giorgetti, punto di riferimento degli ambienti produttivi e autonomisti del Nord, che assieme ai governatori di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia, formano la spina dorsale della Lega, ha dunque negli ultimi giorni provato ad alzare uno schermo protettivo attorno al segretario. 
La scorsa settimana, durante una pausa dei lavori dell’Aula del Senato, intento a votare la fiducia al nuovo governo, Giorgetti si è fermato a conversare con i cronisti: “Ce l’hanno tutti con Salvini, povero Cristo – ha commentato –. Matteo era l’unico che voleva andare avanti, mentre tutti noi gli dicevamo di rompere”. In pratica, come afferma Giorgetti, non è stato solo Matteo Salvini a voler rompere, ma è stata una decisione condivisa da tutti.
Eppure, anche se fosse, le tempistiche scelte per farlo rimangono un mistero e molti sono i sospetti che dietro una scelta politica così azzardata, potrebbero aver giocato un qualche ruolo le molte inchieste che stanno colpendo membri del Carroccio vicini all’attuale segretario.
A parte la vicenda dell’incontro al Metropole di Mosca e dei presunti fondi illeciti manovrati da Gianluca Savoini e quella dei 49 milioni spariti inseguiti dalla Procura di Genova, la questione più delicata resta al momento quella di Armando Siri, l’ex sottosegretario ai Trasporti accusato di corruzione e di avere avuto rapporti poco chiari con personalità riconducibili addirittura al super latitante Matteo Messina Denaro. 
Proprio nei giorni in cui è scoppiata la crisi, gli inquirenti che indagano Armando Siri anche per riciclaggio, in merito ad un mutuo concesso senza garanzie dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino e utilizzato per l’acquisto di un immobile a Bresso, erano impegnati in un braccio di ferro con i legali dell’ex sottosegretario leghista per mettere sotto sequestro i suoi computer. A dare man forte al suo compagno di partito pare sia stato in quel frangente proprio Matteo Salvini, che da ministro degli Interni avrebbe in qualche modo ritardato il sequestro. Sequestro che per il momento i magistrati non sono ancora riusciti ad ottenere.
Ma nel mirino delle Procure è finito nei giorni scorsi un altro pezzo da novanta del Carroccio, Giulio Centemero, tesoriere del partito e uomo vicinissimo a Matteo Salvini. Già indagato per finanziamento illecito dai magistrati di Roma nella vicenda legata al costruttore Luca Parnasi, Centemero è stato ora iscritto nel registro degli indagati per lo stesso reato anche dai giudici del Tribunale di Milano. In particolare ad insospettire gli inquirenti ci sarebbe un versamento di 40mila euro da parte della società Esselunga nel 2016.