BUENOS AIRES – Milei in Argentina e, prima ancora, Trump negli Usa e Boris Johnson nel Regno Unito. Giorgia Meloni in Italia, sebbene con caratteristiche diverse, se non altro perché è donna.
Gli ultimi otto-dieci anni sembrano essere stati un terreno particolarmente fertile per far prosperare capi di Stato o di governo dichiaratamente antiestablishment, scorretti politicamente.
Piacciono agli elettori, più che per un programma elettorale, per un certo piglio iconoclasta e per le loro posizioni apparentemente anticonformiste e antiestablishment, refrattarie alle regole sociali.
“È un fenomeno di carattere generalizzato che raggiunge in alcuni casi punte patologiche” dice Piero Ignazi, professore di Politica comparata all’Università di Bologna e autore di numerosi saggi sul sistema politico, tra cui l’ultimo, Il populista in doppio petto (Il Mulino), dedicato a Silvio Berlusconi, considerato il capostipite di questi nuovi presidenti.
La copertina del saggio di Piero Ignazi.
Ignazi retrodata l’inizio di questa tendenza, in Italia almeno, alla fine degli anni '80, con la nascita delle Tv private. “Che ha portato a una maggiore personalizzazione della politica – spiega Ignazi –. Il mezzo televisivo ha dato la possibilità, a chi ‘ci sapeva fare’ di emergere. Il caso italiano, poi, sarà anomalo perché la persona che deteneva la concentrazione dei media è entrato in politica”.
In comune, tutti questi leader, hanno il fatto di essere figure iconoclaste, che rompono le regole, sanno che chi la spara grossa ha più visibilità di chi ha ragione.
Basta pensare alle dichiarazioni di Trump su presunti attentanti musulmani in Europa (che non si erano mai verificati), i dati sull’inflazione in Argentina che secondo Milei avrebbe raggiunto il 15.000 per cento (siamo a 300 per cento e la situazione è sufficientemente grave senza bisogno di tocchi pittoreschi) o ancora le boutade di Berlusconi sulle proprie avventure galanti.
Sono tutti personaggi esterni al mainstream, nel senso che non hanno fatto carriera (né gavetta) all’interno di un partito. E per questo piacciono.
“Secondo alcune analisi sul voto – osserva Ignazi – la motivazione di molti elettori non è la condivisione di un programma, ma il fatto che quel politico si oppone”. A questo si aggiunge la stanchezza verso i partiti, considerati terreno di cultura della corruzione, e la visione dello Stato come oppressore, che esige ma non restituisce.
Non è un caso che quando il candidato in questione vince e inizia a governare, quindi non può più “opporsi”, la sua popolarità cade di colpo.
Spesso la reazione dei moderati davanti a risultati elettorali come quello di Trump, Milei e Meloni è l’indignazione. Gli elettori vengono qualificati come “ignoranti”, quelli che “non capiscono”, “non sanno” o “hanno la memoria corta”. Si invoca addirittura l’abolizione del suffragio universale.
“Tutto questo è insopportabile – afferma Ignazi –. Se quel leader ha vinto, significa che ha intercettato una domanda che gli altri non hanno colto. E le domande sono sempre legittime, sono le risposte, semmai, a essere sbagliate”.