I cambiamenti climatici sono un tormento bipartisan di straordinarie proporzioni ormai da un quarto di secolo. Hanno provocato spaccature, divisioni e crisi più o meno severe su entrambi i fronti politici e hanno contribuito a far cambiare leader in corsa e addirittura governi. I progetti di decarbonizzazione del pianeta non sono stati la causa principale, ma sono stati sicuramente determinanti del fine corsa, nel 2007, di John Howard, propiziando la vittoria di Kevin Rudd. Sempre per motivi ‘climatici’, dopo l’abbandono degli impegni presi con gli elettori a causa di una vertiginosa perdita di consensi, è iniziata la saga laburista delle ‘porte girevoli’ con l’ascesa di Julia Gillard e la famosa promessa della tassa sul carbonio che non ci sarebbe mai stata che ha portato, nel 2013, prima al ritorno salva-voti di Rudd e poi alla schiacciante vittoria di Tony Abbott.

Sempre il clima, e come arginare i suoi cambiamenti causati dall’uomo, hanno regalato una seconda stagione della serie delle porte girevoli, girata a Canberra, che ha portato alla Lodge (ristrutturata mentre doveva avere come inquilino Abbott che, in effetti, non ci ha mai abitato) Malcolm Turnbull. 

 I tormenti energetici - con la collaborazione dell’allora nastro nascente nelle alte sfere della politica liberale,  Josh Frydenberg - hanno fatto da punto di svolta per un nuovo cambio al vertice, con l’inaspettato inserimento dell’ultima ora nel duello in famiglia in casa liberale, di Scott Morrison  che, al momento delle decisioni, è sembrato un’opzione migliore di chi ha provocato la ‘spallata’ anti-Turnbull: Peter Dutton. E per non perdere terreno nei confronti dell’opposizione che stava marciando sicura, con Bill Shorten, verso la riconquista della Lodge, è iniziato un graduale adeguamento sul fronte delle emissioni, anche se il sì definitivo della Coalizione alla neutralità carbonica (emissioni zero netto) entro il 2050, è arrivato solo nel 2021. Un impegno tremendamente sofferto per i liberal-nazionali (rimesso oggi in discussione soprattutto dai partner minori di un’alleanza rinsaldata in extremis) di raggiungere un equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di carbonio nell’atmosfera nei tempi usciti dall’accordo di Parigi. 

 Una poderosa accelerazione laburista sui traguardi intermedi ha fatto dire all’allora leader dell’opposizione, Anthony Albanese - nella campagna elettorale del 2022 -, che un suo governo avrebbe finalmente messo fine alla ‘guerra climatica’, con un programma energetico imperniato sulle rinnovabili, chiaro e preciso. Un progetto all’insegna della positività su obiettivi e risultati che avrebbe finalmente permesso di far scendere e non salire, durante la necessaria transizione verso il futuro dell’energia pulita, i costi delle bollette per le famiglie e le imprese (promessa sicuramente non mantenuta che, comunque, non sembra avere influito sul verdetto delle urne dello scorso 3 maggio).

Non più guerre,  non più divisioni: forse in casa laburista (anche se qualche tensione e dubbio sui tempi e modi del non troppo graduale, con tutti i costi e rischi del caso, abbandono dei combustibili fossili c’è), ma non sicuramente sul fronte politico opposto, dove tra nucleare ed emissioni zero del 2050 si è scatenata una battaglia che ha portato addirittura, per circa 48 ore, a una rottura completa tra i due partner di una Coalizione traumatizzata dalla recente catastrofica sconfitta elettorale. Ieri è stato annunciato il rientro della crisi, ma la ricucitura è fragile e gli umori su entrambi i fronti rimangono piuttosto tesi. Ancora una volta, quindi, un leader potrebbe pagare di persona il tormento del partito. David Littleproud, annunciando impulsivamente il divorzio prima di scendere a compromessi, è riuscito perfino a mettere quasi d’accordo i due leader che l’hanno preceduto alla guida dei nazionali: Barnaby Joyce e Michael McCormack (entrambi lasciati senza incarico), con quest’ultimo quasi pronto al ritorno per riportare un minimo di credibilità a uno schieramento politico che, al contrario dei laburisti, dei verdi, dei liberali e le ex liberali-laburiste-verdi del movimento teal, si ritrova in prima linea quando si parla dell’inevitabilità delle rinnovabili. Rappresenta, infatti, coloro che devono fare i conti ogni giorno con la nuova realtà fatta di pale eoliche, impianti fotovoltaici, tralicci e potenziate o completamente nuove linee elettriche. Non è poca cosa sia dal punto di vista dell’impatto ambientale, visivo e acustico, sia su quello del paesaggio e sull’uso del territorio: è un’altra realtà, estremamente lontana da quella urbana, dove nessuno fa più caso ai pannelli solari sui tetti (diventati quasi una mezza normalità) e vanno sempre più di moda i veicoli elettrici, incentivati dalle agevolazioni fiscali federali. 

Non ci sarà “una guerra sul clima” ha detto Sussan Ley nella prima conferenza dopo essere stata eletta alla guida dei resti post-elettorali del Partito liberale. Buone le intenzioni, ma la realtà è ben diversa: la guerra c’è, e non riguarda solo la partnership con i nazionali (ieri, dopo l’ufficializzazione della Coalizione c’è già stata la distribuzione degli incarichi nel nuovo schieramento ombra – servizio a pagina 13), ma le divisioni e le incertezze sul da farsi riguardano gli stessi liberali che non hanno mai smesso di confrontarsi su un tema che Abbott aveva rifiutato di accettare come una realtà planetaria con cui dover fare i conti (aveva etichettato i cambiamenti climatici come una “str…ta”) pur firmando, nel 2015, la riduzione delle emissioni concordata a Parigi. Nel 2019 c’era poi stato un mezzo ripensamento liberale, prima del rilancio, nel 2021, da parte di Morrison con le emissioni zero-2050, prima dell’arrivo sulla scena di Dutton con l’opzione del nucleare che gli elettori poche settimane fa hanno bocciato senza riserve.

 

Sussan Ley ha, quindi, messo il futuro dell’alternativa atomica sul tavolo delle discussioni per il futuro, creando la frattura con i nazionali, fino ad arrivare al compromesso dell’impegno, per ora, di correggere la decisione di Howard del 1999 della moratoria su questo tipo di energia. Un prendere tempo che si poteva raggiungere senza ricorrere allo strappo che ha fatto scendere in campo i grandi ex Howard, Abbott, Turnbull e Morrison, per un pronto ripensamento. Ora siamo alla fase del “non è successo niente” all’interno di una Coalizione che, non solo è stata schiantata dal Partito laburista, ma che è retrocessa al terzo posto come numero di voti raccolti, dietro anche ai famosi ‘altri’ dei sondaggi, il gruppone che comprende i partiti minori come verdi, One Nation, Katter’s Australia Party, Centre Alliance, Country Liberal Party, Jacqui Lambie Network, Trumpets, Australia’s Voice e indipendenti vari, teal e non teal. Non era mai successo prima e il clima non ha sicuramente aiutato la causa. E’ da più di vent’anni sulla scena e non intende farsi da parte.