E chi se l’aspettava? Un primo ministro visibilmente commosso che onora il Papa scomparso con sincera ammirazione e annuncia bandiere a mezz’asta in tutta la nazione, un leader dell’opposizione che accetta una pausa della campagna elettorale in dirittura d’arrivo perché “non è il momento della politica”. La morte di papa Francesco ha colpito tutti, anche nella lontana Australia. Non c’era mai stata una reazione del genere: in gran parte sicuramente merito del rispetto che si è conquistato un po’ dovunque il Papa degli umili; in parte, forse, un segno dei tempi e del bisogno di ritrovare certi principi da portare avanti, se non proprio da difendere da una nuova realtà piena di tensioni e differenze valoriali che dividono, probabilmente come mai prima d’ora, questo Paese. Martedì mattina, quindi, pausa delle ‘ostilità’ elettorali dando così l’opportunità sia ad Anthony Albanese sia a Peter Dutton di prepararsi al meglio per il penultimo duello televisivo (andato in onda sulle piattaforme “Nine”) prima del voto del 3 maggio.
Un voto iniziato ufficialmente proprio martedì con la possibilità, ormai ampliamente abbracciata dagli australiani (nel primo giorno già livelli record di partecipazione, con oltre mezzo milione di persone che hanno già votato), di recarsi alle urne anticipatamente nei numerosi seggi allestiti in tutta la nazione. Molti altri, con varie motivazioni (l’elenco delle ‘possibilità’ è piuttosto ampio), faranno ricorso al voto postale e così nella giornata ufficiale del voto, secondo le previsioni e i precedenti, poco più o poco meno del 50 per cento degli iscritti sulle liste elettorali avrà già votato.
Una tendenza che i partiti non sembrano interamente registrare al punto di ‘tenersi’ fino all’ultimo qualche carta extra da giocare: una scelta indirizzata agli indecisi più indecisi da inseguire, con ogni mezzo, fino alla data ufficiale delle urne.
Terzo dibattito martedì sera, un po’ più vivace dei precedenti secondo molti osservatori, ma sicuramente sempre civilissimo e senza particolari sorprese o colpi che lasciano il segno. Vittoria che più di misura non si può del primo ministro o dello sfidante, a seconda delle opinioni degli ‘esperti’ o dei ‘tifosi’, quindi sostanziale pareggio, perché non ci sono grandi programmi né da una parte né dall’altra e Albanese e Dutton, a livello personale, hanno sempre mostrato una certa correttezza: possono piacere di più o di meno, ma offese e arroganza rimangono sempre entro limiti più che accettabili. Niente foga insomma e toni più che controllati davanti a microfoni e telecamere. Qualche affondo qua e là, con Dutton che guadagna qualche punto sul nucleare, pur non annunciando assolutamente nulla di concreto, e Albanese che si assicura l’ammissione che un governo di Coalizione apporterà non specificati tagli di spesa e servizi, con la sanità puntualmente in primo piano con tanto di ricorso a contestati, ma non troppo, precedenti che risalgono al governo Abbott.
Unico vero argomento che non ha avuto il seguito che probabilmente doveva avere, ma che è la ragione principale del ritardo elettorale che l’opposizione sta incamerando (almeno secondo i sondaggi), il vuoto programmatico della Coalizione: Dutton continua sciorinare quelle che considera ponderate ed efficaci risposte al carovita (sconti dei carburanti e qualche soldo in più via aggiustamenti fiscali nelle tasche degli australiani) e assicura maggiore attenzione dal punto di vista della gestione economica (ricorrendo a quello che è diventato una specie di mantra liberale su una presunta maggiore competenza dal punto di vista della gestione finanziaria del Paese) e, naturalmente, offre garanzie e giri di vite, senza particolari dettagli, su immigrazione, sicurezza e criminalità. Pensieri e parole, ma di fatti concreti non si parla, di riforme meno che meno e, quindi, per il leader dell’opposizione l’unica speranza per arrivare in tempi record alla Lodge è quella di un secondo miracolo, in stile Morrison 2019, propiziato in questo caso da un voto anti-Albanese (nel 2019 c’era stato contro Bill Shorten, più che altro per la sua agenda riformista, specie in campo fiscale, ma anche per la campagna anti-laburista, a suon di milioni, di Clive Palmer).
Albanese invece continua a puntare sull’avanti piano, giocando un po’ - per aggirare le delusioni, gli obiettivi mancati, le difficoltà del carovita, l’imprevedibilità dei tempi in cui viviamo, le gravi crisi internazionali – sulla tradizionale propensione degli elettori australiani a non cambiare timoniere quando soffia qualche vento di incertezza che invita alla prudenza: per questo chiede di poter continuare il lavoro iniziato sia per ciò che riguarda l’indubbiamente complicato processo della transizione energetica sia per l’ormai famoso, ma solo a parole, rilancio del ‘made in Australia’, cuore per ora poco pulsante della nuova economia che aveva promesso il ministro del Tesoro, Jim Chalmers (incredibile che nessuno chieda qualche dettaglio in più in proposito di questo presunto rilancio, per capire esattamente cosa viene proposto, come si intende portare avanti il progetto e quando ci sarà qualche risultato).
Qualche accusa bipartisan su una completa onestà in quello che si annuncia e promette, che in politica non c’è mai, ma nessuno strappo che abbia fatto pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra e abbia regalato agli indecisi chissà quali informazioni e certezze che prima non avevano.
Dutton ha rinviato a ieri l’annuncio dei miliardi in più che intende spendere nel campo della Difesa (21 nell’arco di cinque anni, portando le spese militari dall’attuale 2,04 al 2,5% del Pil, superando di gran lunga l’impegno laburista di arrivare al 2,3% entro il 2033): forse poteva anticipare qualcosa martedì sera e forzare una reazione laburista. Promessa sicuramente che non sarà mantenuta da parte di Albanese quella di un accordo, negato nel corso del dibattito, con i verdi in caso di necessità post-voto per assicurarsi un secondo mandato. Nessun dubbio, invece, sul no di Dutton al riguardo. Porte aperte ovviamente a indipendenti vari che, con l’aria che tira in fatto di crescente disinteresse nei confronti dei due maggiori schieramenti politici, potrebbero diventare un numero ancora più consistente dell’attuale dopo il 3 maggio. Tutta da vedere, in questo caso, la tenuta o possibile espansione dell’esperienza teal.
Albanese sicuramente meglio che nel 2022 in fatto di attenzione ai dettagli e un minimo di linea politica da seguire, imperniata nel “non lasciare indietro nessuno” e “non tenere indietro nessuno”, quindi assistenza quanto necessario e nessun vincolo alle opportunità. Dutton invece sicuramente più in difficoltà su una linea-guida che non c’è: non ci sono ‘barche fa fermare’ o impopolari tasse da cancellare alla base di un progetto che, come proposte d’insieme, incredibilmente, non è mai stato formulato.
Gli strateghi della Coalizione, e lo stesso Dutton, forse si augurano che nel paese, alla fine, ci possa essere la stessa reazione che c’è stata in occasione del referendum sulla Voce indigena: un silenzioso dissenso sfociato nel no al progetto sponsorizzato da Albanese. Ma le elezioni federali sono un’altra cosa: ci può essere insoddisfazione, scarsa fiducia, responsabilità alle quali il governo non può sottrarsi, ma forse gli insoddisfatti si aspettavano qualche stimolo in più per voltare pagina. Nemmeno il ricorso alla tattica Howard delle promesse ‘core’ e ‘non-core’ è stata chiara, quella cioè degli impegni concreti e delle ambizioni da portare avanti solo una volta saliti sul ponte di comando. Un tentativo e nulla più di riproporre una strategia che ha funzionato in altri tempi e, soprattutto, con altre ragioni (soprattutto il fine corsa dell’era Hawke-Keating) e protagonisti.
In politica, ovviamente, sappiamo bene la storia del ‘mai dire mai’, dei recuperi in extremis, dei sondaggi che non raccontano tutta la verità, delle punizioni e dei dubbi che non ti aspetti e dell’imprevidibilità legate alle sfide nella sfida, seggio per seggio, che può portare a risultati inaspettati. Una cosa è il quadro generale e i temi a largo respiro che riguardano un po’ tutti, ma poi ci sono le battaglie sul campo ristretto di un singolo collegio, che si vincono e perdono per una manciata di voti, spesso solo grazie ai tatticismi degli accordi sui voti preferenziali. I conflitti senza risposte in Europa, Medio Oriente e Africa, i dazi e l’imprevedibilità dell’amministrazione Trump, i minacciosi e costanti venti di guerra che arrivano dalla Cina e dalla Russia, i cambiamenti climatici, in molti scontri sul campo non sono di certo problemi che possono in qualche modo distrarre gli elettori dal ricorrente praticissimo “cosa mi conviene”. E come non capirli quando, esattamente per la stessa ragione, sulle indicazioni di voto che gli stessi partiti forniscono ai loro potenziali elettori incredibili alleanze con ‘nemici’ giurati o personaggi, sulla carta, improponibili. Ma in politica tutto è possibile e la convenienza, senza alcun imbarazzo, non ha limiti e confini.