“Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere”. Con queste parole Junio Valerio Borghese (Roma 1906- Cadice 1974), ex comandante della X Mas e leader dell’organizzazione neofascista Fronte Nazionale, la mattina dell’8 dicembre 1970 avrebbe lanciato un proclama dalla televisione, annunciando all’Italia la sua presa del potere: terminava la democrazia repubblicana e iniziava una dittatura militare.
Ma il “principe nero” non prese mai la parola in diretta dagli schermi in bianco e nero della Rai quella mattina di cinquant’anni fa. Il presunto colpo di stato fu avviato e poi fermato nel giro di poche ore nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970.
E’ questa la trama del “golpe Borghese”, il più misterioso dei misteri d’Italia e tra i colpi di Stato, chiamato in codice dai congiurati “notte della Madonna” (per la ricorrenza della festa dell’Immacolata Concezione) o “notte di Tora Tora” (in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941).
Presa dei ministeri dell’Interno e della Difesa; occupazione della Rai; sequestro del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat (nella foto); assassinio del capo della polizia Angelo Vicari; occupazione degli studi radio-televisivi della Rai; arresto e deportazione di sindacalisti, dirigenti e dei parlamentari della sinistra in Sardegna: erano questi alcuni degli obiettivi immediati del “golpe Borghese”, che sarebbe stato progettato da diversi anni nei minimi particolari.
Il piano, secondo alcune ricostruzioni, cominciò a essere attuato nella notte del 7 dicembre con il concentramento a Roma di diverse centinaia di congiurati, con azioni simili in diverse città italiane, tra cui Milano.
Al ministero degli Interni militanti del gruppo di estrema destra Avanguardia Nazionale, comandati da Stefano Delle Chiaie (l’interessato ha sempre smentito) e con la complicità di funzionari, penetrarono nell’armeria e si impossessarono di armi e munizioni che vennero distribuite ai cospiratori.
I generali a riposo dell’Aeronautica Militare Giuseppe Casero e Giuseppe Lo Vecchio presero posizione al ministero della Difesa, mentre un gruppo armato di 187 uomini della Guardia Forestale, guidato dal maggiore Luciano Berti si appostarono vicino alle sedi televisive della Rai. Il quartier generale dell’operazione “Tora Tora” fu allestito nella sede romana del Fronte Nazionale in via XXI Aprile, comandato dallo stesso Borghese con il maggiore della polizia Salvatore Pecorella al suo fianco.
Nel quartiere Montesacro ci fu un concentramento di un centinaio tra militari ed esponenti neofascisti pronti a dare l’assalto agli obiettivi sensibili individuati per il golpe. A Milano si organizzò l’occupazione di Sesto San Giovanni tramite un reparto al comando del colonnello dell’Esercito Amos Spiazzi. Il golpe era in fase di avanzata esecuzione quando, improvvisamente, Junio Valerio Borghese ne ordinò l’immediato annullamento. Le motivazioni di Borghese per questo improvviso ordine a poche ore dall’attuazione effettiva del colpo di stato non sono mai state chiarite.
Le cronache giudiziarie raccontarono di una telefonata di un importante generale a Borghese che fece presente di “improvvisi intoppi”, rimandando il golpe ad altra data. Tra i golpisti in armi in diversi erano informatori o agenti segreti del Sid. La segnalazione di quanto stava accadendo sarebbe giunta al generale Vito Miceli, capo del Sid, da cui sarebbe arrivato l’ordine di fermare tutto.
Il Paese, ignaro degli avvenimenti che si erano susseguiti nella notte dell’Immacolata del ‘70, scoprì il rischio corso dalle istituzioni democratiche solo nel tardo inverno del 1971, quando “Paese Sera” rivelò l’esistenza di un progetto eversivo dell’estrema destra. “Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra” era il titolo a caratteri cubitali del quotidiano romano del pomeriggio.
Il 17 marzo 1971 il tentato colpo di stato di Borghese fu ufficialmente rivelato alla Camera dei deputati dal ministro degli Interni, Franco Restivo, dopo le indiscrezioni giornalistiche. Il giorno dopo il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone emise gli ordini di cattura per il tentativo di insurrezione armata contro lo Stato nei confronti degli esponenti della destra extraparlamentare Mario Rosa e Sandro Saccucci, degli imprenditori Giovanni De Rosa e Remo Orlandini, Giuseppe Lo Vecchio e lo stesso Junio Valerio Borghese (quest’ultimo riuscì a rendersi irreperibile e poi a fuggire in Spagna, dove morì nel 1974). La Procura della Repubblica romana dispose in seguito l’archiviazione dell’indagine per mancanza di prove.
La Procura della Capitale riaprì l’istruttoria il 15 settembre 1974 e spiccò nuovi arresti formulando ulteriori accuse. Il 5 novembre 1975 il giudice istruttore Filippo Fiore rinviò a giudizio 78 persone per il tentato golpe Borghese e per i tentativi eversivi successivi.
Il 14 luglio 1978 la Corte d’Assise di Roma, al termine del giudizio di primo grado, affermò l’insussistenza del reato di insurrezione armata per i fatti del 7-8 dicembre 1970. Degli iniziali 78 imputati, soltanto 46 vennero condannati.
La sentenza della Corte d’Assise d’Appello del 27 novembre 1984, confermata poi in Cassazione, assolse tutti gli imputati, anche i rei confessi, “perché il fatto non sussiste”. Per i giudici romani “i ‘clamorosi’ eventi della notte in argomento” non erano nient’altro che il “conciliabolo di quattro o cinque sessantenni”.
“Entrarono al Viminale, non erano degli sprovveduti”
Golpisti da oscar magari no, ma neanche degli sprovveduti, coloro che idearono, prepararono e provarono ad attuare quel “golpe Borghese” che mise in allarme, esattamente mezzo secolo fa, l’Italia. E’ questa la riflessione che fa Luciano Violante (nella foto), l’ex presidente della Camera e a quei tempi magistrato impegnato anche sul fronte del terrorismo, esponente di spicco della sinistra italiana e di quel Pci, la cui avanzata elettorale era nel mirino dei golpisti. “Erano riusciti due volte a entrare nell’armeria del ministero dell’Interno: di certo, non erano dei ‘pirla’... al di là di come poi andò a finire”, osserva.
Violante ricorda che “in quel periodo, nel Paese si respiravano due climi politici opposti. Da un lato, con le grandi riforme approvate tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, il Paese si era civilizzato, basti pensare allo Statuto dei lavoratori, all’apertura degli asili nido, alle lavoratrici madri, alla legge sul divorzio, leggi di enorme importanza molto sostenute a sinistra e molto ostacolate a destra. Tutto ciò fece temere agli ambienti della destra italiana che potesse essere vicino un ribaltamento politico in favore della sinistra, intravedendosi persino la possibilità di un sorpasso elettorale del Pci sulla Dc”.
Questo meccanismo, prosegue Violante, “ha attivato due disegni politici opposti. Per un verso, c’era chi pensava che si era andati troppo avanti e che bisognava frenare; dunque, ecco le stragi che colpivano il popolo che aveva dato crescente sostegno alle sinistre oppure le operazioni di tipo golpista. Per un altro verso, c’era chi sosteneva che si era fatto troppo poco, che la sinistra si era imborghesita, che quelle riforme non toccavano la struttura di fondo; ed ecco il terrorismo rosso, per cui lo Stato non si cambia ma si abbatte. Tutto si innesca nel grande progetto riformatore che in quegli anni ha vissuto il nostro Paese e che ha trovato un pezzo di società e un pezzo di mondo politico del tutto incapace di essere all’altezza di quelle sfide, che anzi temevano”.
E il partito allora dominante, la Dc? “Era un partito così grande e complesso che non ci si può mettere sopra un’etichetta. Diciamo - spiega ancora Violante - che proprio in quegli anni, la Dc si accorse di non controllare più tutte le istituzioni, così come il Pci si accorse di non controllare più tutta la società, come erano invece abituati a fare. Sicuramente, la classe dirigente democristiana non perse il suo rapporto e la sua fiducia nelle istituzioni”.