In un momento in cui le democrazie avanzate faticano a trovare un equilibrio tra crescita economica e stabilità sociale, tra sicurezza nazionale e apertura globale, l’Australia sembra volere scegliere di giocare una partita diversa. 

Anthony Albanese, nel suo secondo mandato da primo ministro, ha deciso di puntare molto sulla produttività. Ma non si tratta solo di un’agenda economica: è una visione politica, un orizzonte strategico e, soprattutto, un messaggio identitario.

La scelta di rilanciare la produttività come asse centrale dell’azione di governo arriva dopo tre anni segnati dall’emergenza inflazione, da un post pandemia che ha stressato i conti pubblici e da un sistema internazionale sempre più incerto.

Ora che i salari reali cominciano a crescere, che l’inflazione rientra e la disoccupazione resta ai minimi storici, Albanese prova a compiere un salto di qualità. 

A giudicare dalle parole pronunciate dal primo ministro nel discorso tenuto tre giorni fa luglio a Sydney e nei successivi interventi televisivi, questa passaggio sarà affrontato con il consueto pragmatismo che ormai sembra essere il marchio di fabbrica del leader laburista: niente annunci eclatanti, ma un metodo che punta a costruire consenso, coinvolgere parti sociali e affidarsi alla coesione di quel “modello australiano” che vuole essere l’antidoto alle fratture che altrove stanno minando le democrazie avanzate.

Ma attenzione: parlare oggi di produttività non significa evocare vecchie ricette neoliberiste. Al contrario, il primo ministro ha connotato questa parola con i segni distintivi della giustizia sociale, dell’inclusione territoriale, dell’innovazione sostenibile. È la promessa di un “futuro fatto in Australia”, che non chiude le porte al mondo ma rifiuta di restare soltanto l’appendice mineraria delle economie asiatiche o il fanalino di coda tecnologico dell’Occidente. È una scommessa sulla capacità del Paese di raffinare, trasformare, produrre, creare valore sul proprio suolo e con le proprie competenze.

La forza del discorso di Albanese risiede nella sua coerenza interna. La visione rappresentata non è una fuga in avanti, ma una strategia ben calibrata, consapevole dei limiti del contesto e delle contraddizioni della politica globale. Lo si è visto chiaramente anche nel John Curtin Oration a Sydney, dove sabato Albanese ha rivendicato con sobrietà un principio semplice ma potente: l’Australia ha il diritto, e il dovere, di perseguire i propri interessi sovrani, anche quando non coincidono perfettamente con quelli del suo più potente alleato.

Non è una rottura con Washington, ma anche una declaratoria di non voler assumere atteggiamenti da vassallo. È, ancora una volta, la riaffermazione di un approccio di dialogo tra mondo economico e sociale, tra apertura internazionale e autonomia nazionale. L’equilibrio tra la cooperazione con gli Stati Uniti, da sempre pilastro di sicurezza, la distensione con la Cina, inevitbile e fondamentale partner commerciale e il rafforzamento dei legami nel Sud-Est asiatico, che rappresenta una frontiera strategica sempre più rilevante è oggi più fragile che mai, ma anche più necessario che mai.

Ora resta da capire in che modo il discorso di Albanese andrà a collocarsi nelle relazioni con gli Stati Uniti. Il primo ministro ha parlato di un legame, quello con gli alleati statunitensi che pur rimanendo centrale, non esaurisce la politica estera australiana. Perché ha evocato la figura di Curtin non per ribadire una dipendenza, ma per rivendicare una scelta autonoma, radicata nel Pacifico, e orientata alla costruzione di un ordine multilaterale basato sulle regole, non sui diktat delle grandi potenze.

Che tutto questo arrivi nel momento in cui Donald Trump si trova nuovamente alla Casa Bianca è tutt’altro che casuale. L’“America First” trumpiana non è infatti una mera parentesi ideologica, ma una tendenza strutturale che sta rendendo difficile il solido allineamento storico tra Canberra e Washington. Lo si è visto chiaramente nel mancato incontro bilaterale al G7 e, soprattutto, nella persistente ambiguità di Washington sul futuro dell’AUKUS.

Albanese, e Penny Wong di ritorno proprio dagli Stati Uniti, provano a minimizzare, ma il nervosismo è palpabile. Il rischio non è solo quello di uno scollamento diplomatico, ma di un’interruzione nella condivisione tecnologica, nella formazione congiunta, nella credibilità stessa dell’Australia come partner strategico. Il nodo è duplice: da un lato, il Paese deve rafforzare la propria capacità industriale e difensiva per contare di più; dall’altro, deve farlo senza rinunciare alla propria vocazione di potenza civile nel cuore dell’Indo-Pacifico.

In questo senso, parlare di produttività diventa un atto politico. Non è solo una questione di PIL o di dettagli tecnici per economisti e imprenditori. È la costruzione di una sovranità moderna, che passa per la filiera della manifattura, per la transizione energetica, per la digitalizzazione, per la formazione di una nuova generazione di lavoratori e imprenditori. È una visione che chiede pazienza, ma anche coraggio. E soprattutto chiede unità di intenti.

Albanese lo ha detto chiaramente: l’Australia deve “parlare bene di se stessa”. Non è una richiesta di conformismo, ma un invito alla maturità collettiva. Troppe volte il dibattito pubblico australiano si è ripiegato sul cinismo, sull’autodenigrazione, sulla paura del cambiamento. Il secondo mandato del governo laburista sarà il banco di prova per capire se una democrazia liberale può ancora riformarsi senza dividersi, innovare senza escludere, crescere senza stravolgere il proprio patto sociale.

Non mancano le incognite. La sostenibilità di alcuni sistemi di welfare, la riforma del fisco, il futuro della coesione sociale nelle aree regionali e tra le nuove generazioni, le tensioni legate a intollerabili atti di antisemitismo. Ma se il metodo del dialogo, dell’ascolto, della responsabilità riuscirà a prevalere sulle scorciatoie populiste, l’Australia potrà davvero diventare un esempio di riformismo pragmatico e inclusivo. In un mondo che fatica a scegliere tra decadenza e radicalismo, il “modello australiano” può rappresentare, ancora una volta, una terza via. Da costruire, passo dopo passo. Insieme.