BUENOS AIRES – È il piatto identificato in tutto il mondo con l’Italia. E se c’è una parola italiana che tutti conoscono, anche chi non ha mai studiato la lingua, quella parola è pizza.
La napoletana, poi, la più tipica, dal 2010 è riconosciuta come Specialità tradizionale garantita, preparata secondo un disciplinare che ne tutela la specificità.
Il 17 gennaio 2017 l’arte dei pizzaioli napoletani è stata riconosciuta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità. Ed è proprio in questa data che, ogni anno, si festeggia la Giornata mondiale della pizza.
Si tratta di un piatto di origini antichissime. A giugno 2023 è stata scoperta negli scavi di Pompei la pittura di una spianata di pane tonda, con un cornicione esterno più alto e vari ingredienti come condimento. La cosa più simile che conosciamo alla napoletana odierna.
Ma l’abitudine di preparare pani e focacce farcite era già presente nell’Antico Egitto (usando altri cereali, come il miglio) e nel mondo ellenico.
Fonti di viaggiatori del ‘300 raccontano della curiosa abitudine dei napoletani di non “chiudere” le focacce, ma di lasciarle aperte con la farcitura in vista.
Per la nascita della pizza come oggi la intendiamo, però, è necessario aspettare il XVIII secolo, ma senza spostarsi da Napoli.
Era un piatto consumato tra le classi popolari: conteneva ingredienti economici (soprattutto nella versione più semplice, con solo il pomodoro), si poteva comprare in strada, da venditori ambulanti, si mangiava in fretta e dava energia.
Pochi anni dopo l’unificazione italiana, il re Umberto I e la moglie Margherita visitarono Napoli e provarono la pizza.
La regina apprezzò particolarmente la varietà “morrazella”, una delle più semplici (con pomodoro, mozzarella e basilico), che da quel giorno venne chiamata Margherita in suo onore. Oltretutto aveva i colori della bandiera italiana. La coincidenza perfetta.
In Argentina, però, la Margherita continua a chiamarsi “muzza” (da muzzarella).
Qui, la pizza è arrivata con l’immigrazione italiana della prima ora ed è diventata presto un piatto popolare. Come la fainá (erede della farinata ligure, una focaccia di farina di ceci), si è diffusa soprattutto nei quartieri proletari, per esempio La Boca, ad alta presenza di immigrati.
Pizza e fainá erano il cibo dei lavoratori del porto, del mercato generale e delle costruzioni. Costavano poco e fornivano energia e proteine (quelle del formaggio per la pizza, dei legumi la fainá), tanto che spesso venivano consumate insieme, una sopra all’altra, abitudine assente in Italia.
La pizza argentina, tuttavia, presenta alcune differenze, come l’impasto più spesso e pesante (tanto da assomigliare più a un pane o a una pizza romana) e una farcitura più abbondante di formaggio.
Sono differenze legate alla diversa disponibilità di ingredienti (tutte le famiglie di immigrati hanno dovuto adattare le ricette di casa alla situazione materiale in cui si trovavano) e a gusti non sempre coincidenti.
Così, la pizza argentina è arrivata a rivendicare una propria autonomia rispetto a quella italiana e schiere di fan ne sostengono la superiorità, in quanto più ricca e sostanziosa. In più, viene visto come vantaggio il fatto che – per la consistenza dell’impasto – il condimento non scivoli dalla fetta se la si afferra con le mani, “inconveniente” necessario per definire una pizza come autentica napoletana.
Come in un derby Boca – River, non si arriverà mai a un accordo. Di fatto, negli ultimi anni a Buenos Aires si sono diffuse pizzerie napoletane gestite da italiani nativi o da cuochi che hanno studiato l’arte del pizzaiolo in Italia e che la trasmettono a colleghi argentini.
Resta la pizza come simbolo della convivialità tra amici, delle cene dopo la partita di calcio, delle interminabili discussioni di politica quando i camerieri ti fanno capire che è il momento di chiudere. E in questo modo di intendere la vita, gli italiani si riconoscono tra loro in tutto il mondo.