Un solo giorno, una sola udienza, un unico verdetto per una decisione già scritta e formalmente presa in appena un quarto d’ora: condanna a morte. Era stato Benito Mussolini in persona a volere nel 1944 il processo agli ammiragli della Regia Marina, per scaricare su di essi il peso della sconfitta dell’Italia e del regime nella seconda guerra mondiale, e l’onta del tradimento nel disastro consacrato dalla resa incondizionata. La Repubblica sociale, la creatura nella quale si era reincarnato il fascismo dopo la risurrezione sotto tutela delle baionette tedesche, cercava vendetta. E la trovò facendo fucilare gli ammiragli che nell’Egeo avevano aperto il fuoco contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943, e quelli che non l’avevano fatto contro gli Alleati prima dell’armistizio. 

Nella rete, dopo lo sfascio delle forze armate, erano rimasti quattro ammiragli, ma solo due erano finiti alla sbarra davanti alla Corte d’Assise di Parma: Inigo Campioni, governatore del Dodecaneso e comandante delle forze italiane durante la battaglia di Rodi, e Luigi Mascherpa, al vertice della guarnigione di Lero e delle truppe combattenti, caduti nelle mani dei tedeschi i quali li avevano consegnati al Duce. Gino Pavesi, comandante del presidio di Pantelleria che si era arreso l’11 giugno del 1943, e Priamo Leonardi, comandante della piazza militare marittima di Augusta-Siracusa, la più armata della Sicilia a luglio 1943, erano prigionieri degli Alleati e vennero pertanto giudicati in contumacia, scampando comunque al destino loro destinato da Mussolini. I quattro erano imputati di alto tradimento nei confronti dello Stato, un’accusa giuridicamente inconsistente: lo Stato nel 1943 era il Regno d’Italia al quale avevano prestato giuramento non certamente la RSI che peraltro allora non esisteva oltre a non essere riconosciuta da nessun Paese a eccezione del Reich e degli alleati e satelliti; gli alti ufficiali si erano infatti attenuti agli ordini delgoverno legittimo. 

Quello di Parma era un processo politico avvolto da un simulacro giuridico che offendeva il diritto, la storia e la logica. Già il 12 maggio erano stati giudicati gli ammiragli Pellegrino Matteucci e Franco Zannoni, assolti perché una volta appreso dell’armistizio non avevano fatto proprio nulla e non si erano pertanto opposti ai tedeschi. Campioni e Mascherpa avevano invece combattuto e guidato le operazioni militari. Dovevano essere i capri espiatori delle malefatte del regime, e quindi pagare con la vita per le proprie responsabilità dovute all’onore militare e l’inettitudine e le colpe altrui. Il processo si apre alle 9 e la fase istruttoria è una pura e sciatta formalità. Il giudice istruttore Vincenzo Cersosimo adempie con piaggeria ai desideri mussoliniani di condanna a morte. Gli avvocati difensori Paolo Toffanin (Mascherpa) e Lodovico Bazini (Campioni) vengono ascoltati distrattamente quando dimostrano l’assurdità e l’illogicità di quel procedimento e la correttezza del comportamento dei loro assistiti, neanche troppo velatamente intimiditi con lo spettro di un’incriminazione per apologia di reato. Dei testi a favore, erano dieci quelli convocati dalla difesa, se ne presentano solo tre, ma non basta per ottenere un rinvio. 

In aula non c’è il pubblico dei processi-spettacolo, contrariamente a quanto avvenuto a Verona nel processo ai “traditori” che doveva essere ed era stato esemplare: stavolta possono entrare solo gli uomini, previa identificazione e registrazione, non le donne e neppure i parenti. Gli interrogatori degli imputati sono per onor di firma, perché i contenuti delle deposizioni non interessano affatto i giudici. Campioni e Mascherpa devono rispondere di aver obbedito agli ordini “criminosi” di resa del maresciallo Pietro Badoglio e di atti di guerra contro i camerati tedeschi. Scontata la richiesta del pubblico ministero durante la requisitoria: pena di morte. Udienza sospesa alle 19 per consentire alla corte di ritirarsi. La Camera di consiglio si consuma in 15’, il tempo di una firma su una sentenza già scritta. Condanna alla fucilazione, stabilita al petto a norma dell’art. 103 del Codice penale militare di guerra, “per aver leso gli interessi dello Stato”, non per il reato di altro tradimento che la prevedeva alla schiena, alla modalità italiana: seduti su una sedia, spalle al plotone d’esecuzione.

Nella notte tra il 22 e il 23 maggio l’ammiraglio Campioni scrive una lettera all’avvocato Gustavo Ghidini: “La ringrazio di tutto cuore di quanto ha fatto per me. Le ho procurato involontariamente, emozioni e preoccupazioni spirituali che certo non immaginavo allorché La pregai di assumere la mia difesa: non me ne voglia. Mentre Le scrivo sono sereno come Lei mi ha sempre visto, perché nessuno meglio di Lei sa come la mia coscienza è pura e l’onore intatto”. Un’altra lettera, toccante e d’addio, è indirizzata alla madre: “La giustizia o, meglio, la condanna degli uomini non mi tocca, perché la mia coscienza non ha assolutamente nulla da rimproverarsi, e questo fa sì che io sia così meravigliosamente tranquillo e rassegnato a una fine ingiusta e immeritata. Del mio nome siate sicuri che non dovrete mai vergognarvi, perché mai, lo giuro, sono venuto meno alle leggi dell’onore. Non ne voglio a coloro che in un tempo di così tragiche vicende mi hanno condannato”. 

Alle 2.30 del 24 maggio è il cappellano del carcere parmense, don Paolo De Vicentiis, a informare i due condannati che la domanda di grazia, com’era ovvio, era stata respinta. Le autorità fasciste non concedono neppure di poter indossare l’uniforme della Regia Marina, che secondo loro è stata disonorata. Alle 5 i due ammiragli vengono avviati al poligono di tiro in abito borghesi. A Mascherpa è stato negato pure di vedere la moglie per l’ultima volta. È almeno risparmiata l’onta delle manette ed è accolta la richiesta di rimanere in piedi davanti al plotone d’esecuzione, che i militari affrontano con dignità. Poi la scarica fatale.