Per molto tempo mi sono visto solo come un nuotatore. Quando ho smesso, non sapevo più chi fossi”. Michael Phelps è l’atleta più forte della storia delle Olimpiadi. Lo dicono i numeri, le medaglie d’oro, i record. Ma durante la sua carriera è stato anche un uomo fragile, pieno di domande e di dubbi. E quando il rumore dell’acqua, delle bracciate, delle gambate si è spento d’un tratto, intorno a lui è rimasto solo il silenzio. Un silenzio in cui tutte le ombre prendevano corpo e diventavano più spaventose. Del resto, uno che vince tutto… che cosa fa poi nella vita? Come può alzare ancora l’asticella, se in alto non c’è più spazio? Come ci si reinventa dopo 28 medaglie olimpiche, di cui 23 d’oro? Nessuno, forse, arriverà mai dove è arrivato lui. Ma fuori dalla vasca è tutta un’altra storia. Quella di Michael Phelps, nato il 30 giugno 1985 a Towson, sobborgo residenziale di Baltimora, è una vita divisa in due: una dentro, e una fuori dall’acqua. 

Baltimora non è Los Angeles né New York, ma nel mondo del nuoto è una capitale silenziosa, una bandierina ben riconoscibile. In quella città, Phelps ha cominciato a nuotare non per ambizione, ma per necessità. Lui, a scuola, non ci sa stare. Non nel senso dei voti o delle materie: il problema è fisico. Le gambe non gli stanno mai ferme, la testa corre più veloce del resto. Alle elementari gli diagnosticano l’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder): iperattività, difficoltà d’attenzione, incapacità di seguire il ritmo dei compagni. Prima di trovare il nuoto, ne prova tanti. Forse troppi. Baseball, calcio, lacrosse, golf, wrestling, ginnastica. Ma niente lo prende davvero. Non si aggancia a nulla. Gli manca qualcosa: una direzione, un ritmo, un posto dove stare. Fa fatica a concentrarsi, a stare alle regole, a tenere la testa accesa per più di qualche minuto. Tutto gli scivola addosso. Finché non arriva la piscina. Quando lo portano per la prima volta lì, Micheal non vuole mettere la testa sotto. Gli istruttori insistono, ma lui, 7 anni, resiste. Rimane a galla, con gli occhi fuori, terrorizzato dall’idea di affondare. Non è paura del nuoto in sé. È la perdita di controllo, l’idea di non sapere cosa succede lì sotto. Per un bambino già agitato di suo, è troppo. Poi qualcosa cambia. Lentamente. Giorno dopo giorno, scopre che l’acqua non è un pericolo, ma un’amica, un rifugio. Che laggiù c’è silenzio, che il corpo si muove meglio che sulla terraferma. La paura lascia il posto alla familiarità. È una simbiosi che ha avuto bisogno di tempo ma che si è realizzata in pieno. 

Sydney è lontana anni luce da Baltimora e il villaggio olimpico è una città nella città. Atleti ovunque, microfoni, bandiere, lingue diverse, autobus che partono a orari precisi. Phelps ha 15 anni e non è mai uscito dal suo Paese. È un esordiente. La sua unica gara è quella dei 200 metri farfalla. Nuota bene, senza sbavature. Entra in finale. Quinta corsia. Davanti a sé i migliori al mondo. Alla fine tocca quinto. Nessuna medaglia, nessun titolo. Il primo record mondiale Phelps lo stabilisce il 30 marzo 2001 ai Campionati Nazionali americani di Austin, Texas. Ha solo 15 anni e 9 mesi. Gareggia sempre nei 200 metri farfalla e ferma il cronometro a 1:54.92. È un momento storico, Phelps diventa il più giovane nuotatore della storia a infrangere un record mondiale in vasca lunga, battendo il precedente primato dell’australiano Ian Thorpe. Pochi mesi dopo, ai Mondiali di Fukuoka, quel tempo è di nuovo sotto attacco. Ha solo 16 anni. In finale, però, non trema: chiude in 1:54.58. È record, di nuovo. Ed è campione del mondo.  L’impatto con i Giochi di Atene è complicato. Arriva in Grecia dopo aver frantumato cinque record del mondo nei due anni precedenti. Debutta nei 400 misti. Vince. Ma soprattutto distrugge il record del mondo: 4’08”26. Nei giorni successivi, Phelps nuota staffette, si mette a disposizione della squadra, vince in stili diversi. Oro nei 100 e nei 200 farfalla, oro nei 200 e 400 misti, oro nella 4x200 stile libero (con una prestazione dominante), e bronzo nella 4x100 stile libero. In totale: sei ori, due bronzi, cinque record olimpici, un record mondiale.

Phelps arriva alle Olimpiadi di Pechino con i paraocchi. L’unica cosa che vuole vedere è l’acqua, la corsia, sempre una di quelle centrali, le linee nere sul fondo della vasca, la grande T vicino all’arrivo. Gli serve solo quello. Il primo test arriva con i 400 misti. Una delle gare più faticose dell’intero programma: vince con margine e firma l’ennesimo record del mondo. La seconda gara è la staffetta 4x100 stile libero, una delle più spettacolari: record del mondo, oro numero due. I 200 stile libero scorrono lisci. È una delle sue distanze preferite. Quella che gli permette di combinare resistenza e potenza. Ancora oro, ancora record del mondo. A questo punto, sono tre ori in tre gare. Nei 200 farfalla, la sua specialità, all’inizio della seconda vasca, gli occhialini si riempiono d’acqua. Non vede più niente. In quella condizione, nuota a memoria, contando le bracciate. E lo fa senza mai perdere il ritmo. Vince anche questa. Oro numero quattro. E, incredibilmente, altro record del mondo. La 4x200 stile libero. è lunga, impegnativa. Ma Phelps parte forte, ancora una volta. Si prende il vantaggio, lo passa ai compagni. Nessun errore, nessuna esitazione. Gli americani vincono comodi. Cinque ori. Cinque su cinque. Il giorno dopo, i 200 misti non presentano grandi minacce. Li domina in modo chirurgico. Vince con margine, senza rischiare nulla. Sei ori. Sei su sei. Poi arriva la gara più pericolosa, i 100 farfalla: Phelps vince di un centesimo. Sette ori. Come il leggendario Mark Spitz. All’ultima gara, la 4x100 misti, c’è l’atmosfera delle grandi occasioni: è una vittoria netta. Gli americani volano. Oro numero otto. Otto gare, otto ori, sette record del mondo. Michael Phelps ha riscritto la storia. Anni dopo, Ian Thorpe, l’uomo che aveva detto che non sarebbe stato possibile, lo ammetterà: “Sono felice di essere stato smentito. Non pensavo che potesse succedere. Non per mancanza di talento, ma per la concorrenza. E invece lo ha fatto”. Dopo Pechino cambia tutto. Il suo nome è sinonimo di leggenda: giornali, spot pubblicitari, talk show. Va alla Casa Bianca, ospite d’onore, e diventa il simbolo perfetto dell’America che vince. Il nuotatore da 8 ori è dappertutto. Ma dietro quell’immagine costruita alla perfezione, qualcosa s’incrina. Perché quando centri l’obiettivo che ti sei dato per tutta la vita, la domanda che arriva subito dopo è semplice e difficile allo stesso tempo: e ora?

Dopo una vita fatta di sveglie all’alba e allenamenti doppi, si prende una pausa. Inizia a viaggiare, frequentare amici, vivere situazioni che per anni aveva evitato o ignorato. Tutto quello che fino ad allora era rimasto fuori dal programma. Continua ad allenarsi, a gareggiare, ma senza il fuoco che lo ha contraddistinto per anni.  Ed è in quel contesto che uno scatto lo ritrae mentre fuma marijuana, durante una festa universitaria. L’immagine finisce ovunque. Tabloid, siti sportivi, notiziari. Diventa un caso. La federazione americana lo sospende per tre mesi. Phelps si scusa pubblicamente, ma riconosce che è stato uno degli episodi più difficili della sua carriera. A Londra 2012 i segnali sono evidenti fin da subito. Nei 400 misti arriva quarto. È la prima volta che manca una medaglia in una finale olimpica. Nei 200 farfalla, la sua gara, perde l’oro sul tocco contro il sudafricano Le Clos. Una sconfitta secca, non prevista. Ma resta competitivo. Recupera concentrazione e chiude con un bilancio comunque eccezionale: quattro ori e due argenti. Vincendo la staffetta 4x200 stile libero, Phelps diventa l’atleta più medagliato nella storia delle Olimpiadi, superando le 18 medaglie della ginnasta sovietica Latynina. Con il trionfo nei 200 misti e nei 200 farfalla diventa il primo nuotatore (tra gli uomini) a vincere la stessa gara individuale in tre Olimpiadi di fila.

L’annuncio del primo ritiro arriva a Giochi di Londra conclusi. Phelps lo comunica con calma, senza grandi cerimonie, a 27 anni. Ma quella pausa si trasforma lentamente in qualcosa di più complicato. I giorni si allungano, le notti diventano più pesanti. Il ritmo della piscina è sparito. Non ci sono orari, non ci sono obiettivi. Solo una strana routine fatta di silenzi, sonno irregolare e poca voglia di parlare con qualcuno. Si accorge che qualcosa non va e torna a gareggiare. Poi, nel 2014, viene fermato per guida in stato di ebbrezza a Baltimora. E stavolta l’effetto è diverso. Il suo nome non è più inattaccabile. I titolisti parlano di crisi, di problemi, di caduta. Phelps sparisce per settimane. Lo dirà solo più avanti di non aver mai veramente pensato al suicidio nonostante la pesantezza di quei pensieri, quando comincerà a raccontare la depressione che lo ha accompagnato, silenziosa, per anni. Decide di chiedere aiuto. Entra in un centro specializzato, comincia un percorso terapeutico, parla con altri atleti che hanno vissuto la stessa cosa.  

Quando torna a nuotare, Michael Phelps non lo fa per le medaglie. O almeno, non solo. Lo fa per sé. Nel frattempo, cambia tutto anche fuori dall’acqua. Conosce Nicole Johnson, ex Miss California, che diventerà sua moglie. Nasce Boomer, il primo figlio, e per la prima volta diventa padre prima di salire sul blocco di partenza. È così che si presenta a Rio 2016. Vince cinque ori e un argento. Trascina ancora le staffette, domina nei 200 farfalla. Vince anche nei 200 misti, per la quarta Olimpiade consecutiva. Nessuno ci era mai riuscito. L’unico argento arriva nei 100 farfalla. I Giochi brasiliani sono davvero l’ultimo capitolo, e per la prima volta lo decide lui. Senza pressioni esterne. Si ritira subito dopo la staffetta mista, ultima gara della sua carriera. Non c’è nostalgia, solo consapevolezza. “Adesso posso chiudere bene. Posso andare avanti.”

Finita la carriera, stavolta Phelps non sparisce. Si prende uno spazio tutto suo. Diventa testimonial per la prevenzione della depressione, investe in progetti sulla salute mentale e sulla sostenibilità ambientale, si dedica alla Michael Phelps Foundation, con programmi d’educazione al nuoto e benessere per i giovani. “Il fatto è, e chi convive con problemi di salute mentale lo sa bene, che non se ne va mai. Ci sono giorni buoni e giorni cattivi. Ma non c’è mai un traguardo. Ho fatto tante interviste dopo Rio in cui la storia era sempre la stessa: Michael Phelps ha parlato apertamente della depressione, ha iniziato un programma di trattamento, ha vinto l’oro alle sue ultime Olimpiadi e ora sta meglio. Vorrei che fosse la verità. Vorrei che fosse così facile. Ma onestamente, e lo dico nel modo più gentile possibile, questa è pura ignoranza. Chi non capisce cosa affrontano le persone con ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress non ne ha la minima idea”. In vasca, Phelps, ci è stato per più di metà della sua vita. Gli ha dato tutto ma gli ha anche tolto tanto. E dopo essere diventato l’atleta più forte della storia delle Olimpiadi, oggi parla spesso nelle scuole, partecipa a conferenze, si espone sul tema degli abusi emotivi nello sport, e racconta la sua storia senza filtri. “Ho imparato che il successo non ti protegge dal crollo. Ma parlarne può aiutarti a non caderci di nuovo”.