Ho una storia. L’ho trovata frugando tra scatole stracolme di libri accantonati alla rinfusa nella soffitta dei nonni, nascosta dentro un libro di pagine ingiallite e rigide dall’essere state bagnate, avvolto da una giacca impolverata che protegge il dorso deperito e la copertina in velluto dal color verde pistacchio macchiata, impressa da lettere d’oro che lo proclamano un vocabolario croato-italiano, appartenente a mia nonna, secondo la calligrafia elegante che attraversa la prima pagina.
In realtà, non è un vocabolario qualsiasi, perché dentro c’è una storia: basta leggere fra le righe di parole e traduzioni e coniugazioni, e si intravede un mondo sepolto, quasi scordato; fra termini sottolineati e idee scarabocchiate, si scorge la vita di mia nonna.
Sono sicura che i gabbiani pensavano che quella ragazza fosse matta: l’unica sveglia alle cinque di quella mattina sbattuta dalla furia del gelido scirocco invernale, in attesa del sorgere del sole, quando avrebbe dovuto svegliare il fratellino, con un libro in mano.
Quel ventaccio infernale urlava imprigionato nelle valli di quell’isola, ma tra poco il bisbiglio delle pagine la ipnotizzò, e non sentiva altro che le voci dei personaggi del libro che leggeva, quei promessi sposi perdutamente innamorati, le quali le facevano drizzare i peli sulle braccia.
Ogni mattina si svegliava molto presto, camminava al piccolo molo abbandonato, e leggeva, bramando svegliarsi un giorno e trovarsi in un bosco fantastico di bestie e streghe, o in una tomba di faraoni; ogni mattina sperava che il sole tardasse qualche minuto in più per sorgere perché potesse leggere di più, però sorgeva sempre troppo presto.
Tornando a casa, gli uccelli sembravano cantarle melodie dolci e tenere, appollaiatisi sui vecchi tetti vermigli, e decise di farsi un caffè turco: i vicini gliene avevano regalato un po’ quando il loro padre era stato arruolato nell’esercito e se n’era andato alle montagne sulla terraferma.
Accese il fuoco, mise il libro sotto il suo guanciale sul letto dove ancora dormiva suo fratello, lo svegliò alquanto bruscamente, e mentre aspettava che bollisse l’acqua, si sedette e si affacciò alla finestra a guardare le donne nelle case vicine preparare i figli per la giornata scolastica, alcune con i volti arcigni e aspri, altre esauste con gli occhi lucidi, tante portando le loro gramaglie pie; poi all’improvviso trattenne il fiato, e aveva l’impressione quasi di soffocare, perché vedeva camminare in fretta la guercia, affannata, turbata, e diretta a casa loro.
Bussò alla porta e la ragazza la fece entrare a malincuore, cercando di celare la sua paura. Quando vide quella donna dura, con uno stomaco di struzzo che le permetteva di digerire polpi senza masticarli, guardarle negli occhi con un barlume di tenerezza finora estranea a quel viso sempre incupito, quasi scoppiò a piangere. La guercia spese il fuoco, versò il caffè turco nella tazzina preferita della ragazza, le fece bere, e le disse che suo papà non sarebbe tornato mai dalle montagne.
Prima che questo fatto le potesse spezzare il cuore, la guercia le tenne la mano e le disse che non fu morto in battaglia, che non fu ucciso da nessun nemico forestiero; e allora lei capì quanto fosse grave la situazione, perché fra qualche anno sarebbe stato arruolato anche suo fratello, e quelli al potere hanno la memoria di ferro quando si tratta dei dissidenti.
Quindi si costrinse a smorzare il dolore, come se stesse ricoprendolo di calce viva, sebbene il lezzo di corruzione le bruciasse e intaccasse le viscere, sebbene volesse urlare a squarciagola e rimproverare suo padre per aver fatto promesse da marinaio di tornare a casa e di portarle un libro; invece, si anestetizzò il cuore, e la ragazza e la guercia si misero a discutere dell’avvenire.
Mia nonna aveva la discalculia, o come la descriveva lei, i numeri non le entravano in testa, a differenza di suo fratello; eppure, secondo mio prozio, tutti i maestri la consideravano la studentessa più brava della sua scuola nonostante questo difetto perché, quando si svegliava ogni mattina alle quattro e mezza e andava al molo, leggeva non solo in croato, bensì anche in italiano.
L’italiano si insegnava a scuola, ma pochi lo parlavano come lei; quindi, la chiamavano l’italiana per la sua bravura, e la riconoscevano dal dizionario con la copertina in velluto dal color verde pistacchio che portava sempre in mano. Era l’amica geniale di tutti, ma preferiva essere da sola, incantata dai mondi fra le righe: quanta gioia le dava scoprire il nome italiano della rosa, delle tovaglie di pizzo, delle frattaglie dei pesci; e riempire i polmoni di aria per lasciare rombare quella musica dalle sue labbra; e perdersi vagando tra vie inalberate da frasi infinite, raccogliendo parole e scrivendole nei margini del dizionario, come se fossero mele di un rosso brillante da raccogliere in un cestino; e pure sognare in quella bella lingua di cui si inebriava sempre di più.
Si sentiva libera, viaggiando con Dante nei cerchi dell’Inferno, o ascoltando Fiammetta raccontare una storia nella campagna fiorentina, e scriveva le sue idee ed emozioni in quel dizionario così prezioso. Dunque, quando la guercia le spiegò che, se voleva che tutto rimasse com’era, bisognava che tutto cambiasse; ad un tratto seppe che la vita vale più della patria, e che avrebbe fatto di tutto perché lei e suo fratello fossero liberi, che avrebbe letto migliaia di libri in italiano, che avrebbe smorzato ogni dolore e avrebbe rimosso ogni ricordo, che avrebbe attraversato il mare adriatico remando, finché non fossero stati sani e salvi.
Quella stessa notte, mia nonna e suo fratello aspettarono che il sole calasse e che le nuvole oscurassero la luce febbrile della luna. Andarono quatti quatti, strisciando contro le mura, il ragazzo con una piccola valigia e la ragazza col dizionario, e quando erano sufficientemente lontani dagli occhi, accorsero al molo, dove gli aspettava una barca di pescatore, costruita dalla guercia. Lasciarono un rosario nella cappelletta nel mare, un addio ai genitori: a papà nelle montagne e a mamma nel camposanto. La notte era burrascosa; la sorte gli aveva regalato una forte bora alle spalle.
Guadarono qualche metro trainando la barca, e poi ci si issarono e cominciarono a remare violentemente, per sfuggire agli occhi dei vicini. Mia nonna dirigeva, guardando le stelle, ascoltando il vento, sentendo la marea; e mentre remavano, raccontava storie che persino i pesci e le tartarughe che passavano sotto ascoltavano, storie che lasciavano scie di aggettivi e verbi, storie così potenti da poter riempire le fessure nel vecchio legno della barca che proteggeva quei ragazzi in balia delle onde.
Fecero salti di gioia quando intravidero all’orizzonte colline ondulanti coperte da una nebbia d’oro, e mentre ci si avvicinarono, ci scorsero delle case bianche imporporate dalla luce dell’alba, che sorrideva smagliante sulle onde. E quel panorama favoloso fu un’immagine a cui si sarebbero dovuti avvinghiare, perché quasi subito dopo il loro sbarco furono presi in custodia dalla polizia e trasportati a un campo profughi, che pochi anni prima era un campo di concentramento, e poi ad un altro, meno raccapricciante ma altrettanto inondato di persone sfollate come loro.
Tanti avevano perso le loro famiglie, i loro nomi, le loro storie, ma non avevano ancora perso le loro vite, e cercavano di rifarle in qualche modo; cercavano opportunità di lavoro, e dunque mia nonna faceva l’interprete per quelli che volevano impegnarsi ma non riuscivano a esprimerlo alle autorità italiane; così, man mano, costruiva la sua vita qui in Italia, parlando con le persone, aiutandole a capire e farsi capire.
Questo è un percorso che non abbandonò mai, prima lavorando come interprete nell’ospedale dove avrebbe conosciuto suo marito e avrebbe dato alla luce i suoi figli, e poi come professoressa della lingua che le ebbe concesso così tanto, dei libri che le ebbero salvato la vita.
Mia nonna parlava sempre al lavoro, in casa, per strada, ma non si parlava mai del suo passato, fino alla sua morte. Perciò ho frugato tra i suoi libri finché non ho scoperto quel vocabolario con la copertina in velluto dal color verde pistacchio macchiata che aveva sull’ultima pagina un messaggio scritto nella sua calligrafia elegante: “Mia nipote bellissima, spero che sia tu che leggerai queste parole. Perdonami. A volte mi chiedi del passato e non so spiegartelo, e taccio.
Quando ho trovato questo vocabolario nella soffitta e ho letto tutti i ricordi che ci avevo scritto, della mia gioventù, della nostra fuga, della mia nuova vita e della mia famiglia, ho rivisto il mio passato. Ma non mi riconosco più nella scrittura nervosa di quella ragazza. Forse queste storie non riuscirò a raccontarti mai, ma se le leggerai un giorno, per favore, riscrivimele. Anzi, raccontami qualcosa di bello: raccontami la tua storia, e vivila tesoro. Come noi, o muoiono o vivono le storie. O le seppelliamo o le scaviamo.”
Quindi prendo in mano una matita e sulle pagine di quel vocabolario, fra le righe delle coniugazioni del verbo immaginare, comincio a scrivere una nuova storia.