CANBERRA - La migrazione netta in Australia ha proseguito la sua discesa dal record registrato dopo la riapertura dei confini post-pandemia, mentre il dibattito politico si sposta progressivamente dai numeri ai valori.
Secondo i dati pubblicati ieri dall’Australian Bureau of Statistics, la net overseas migration (NOM) si è attestata a poco più di 305mila persone nell’ultimo anno finanziario.
Il dato è inferiore di circa 6mila unità rispetto all’anno concluso a marzo e di ben 250mila rispetto al picco raggiunto nel settembre 2023. Tuttavia, il ritmo del calo sta rallentando. Sebbene il risultato sia leggermente al di sotto delle previsioni del Dipartimento del Tesoro per il 2024-25, fissate a 310mila, appare sempre meno probabile che l’Australia riesca a centrare gli obiettivi più ambiziosi dei prossimi anni: 260mila nel corrente esercizio e 225mila nel 2026-27.
Secondo Abul Rizvi, ex segretario del Dipartimento dell’Immigrazione, due fattori stanno frenando una riduzione più marcata. Il primo riguarda le politiche sui visti per studenti: dopo una fase di forte inasprimento tra il 2023 e il 2025, l’annuncio di livelli di pianificazione più alti per il 2026 ha stimolato un aumento delle domande universitarie dall’estero nei mesi di settembre e ottobre. Il secondo fattore è il mercato del lavoro australiano, che resta più solido rispetto a quello di Paesi comparabili come la Nuova Zelanda, continuando ad attrarre lavoratori.
Dopo il forte aumento dei flussi migratori seguito alla pandemia - quando la migrazione netta era diventata negativa - esponenti della destra politica hanno puntato il dito contro il governo Albanese, accusandolo di aver aggravato la crisi abitativa. Nelle ultime settimane, però, e in particolare dopo l’attacco di Bondi, il discorso pubblico ha cambiato tono.
Non più solo “quanti”, ma “chi”.
Il deputato liberale Andrew Hastie ha sostenuto che chi entra in Australia deve aderire a valori fondamentali come uguaglianza, stato di diritto e tradizioni democratiche, definendoli parte dell’eredità giudeo-cristiana del Paese. Ha inoltre affermato che alcune correnti dell’islam radicale sarebbero incompatibili con il modello australiano.
Rizvi prevede che all’interno della Coalizione si aprirà un confronto acceso sull’eventuale ritorno a politiche migratorie discriminatorie. L’Australia, pur selezionando i migranti in base a competenze, età e condizioni di salute, non applica criteri basati su razza, religione o nazionalità dagli anni Settanta. Reintrodurli, ad esempio limitando l’ingresso da Paesi a maggioranza musulmana, sarebbe secondo lui estremamente difficile da attuare e profondamente divisivo, oltre a esporre il governo a inevitabili ricorsi all’Alta Corte.
Anche proposte come lo screening delle opinioni antisemite o l’ampliamento dei poteri ministeriali per revocare i visti a persone con simpatie estremiste avrebbero un impatto limitato sui flussi complessivi. “Le convinzioni personali raramente sono documentate”, osserva Rizvi. Verificarle richiederebbe tempi lunghissimi e rischierebbe di paralizzare un sistema già sotto pressione, rendendolo di fatto ingestibile.