MOSCA - Da quando mercoledì scorso il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato la mobilitazione parziale di 300mila reclute da inviare al fronte, sono già 5mila i russi che sono fuggiti attraverso la frontiera finlandese, presa d’assalto da lunghe file di macchine. Tutti esauriti sono anche i voli in uscita dal Paese verso quelle nazioni che ancora non hanno chiuso l’accesso ai cittadini della Federazione, ma c’è anche chi attraversa i confini via terra e via mare, verso la Turchia, o verso la Mongolia. La Germania intanto ha fatto sapere che darà asilo a coloro che scappano dal regime di Putin, mentre Stati come la Lettonia e l’Estonia chiudono le porte del proprio territorio con una motivazione molto dura: finora quelli che scappano erano d’accordo con l’uccidere gli ucraini, quindi non saranno accolti.
E mentre molti fuggono, già nei giorni subito successivi all’annuncio del Presidente c’è anche chi decide di restare e di manifestare contro la guerra e contro la mobilitazione. Proteste sono avvenute infatti in moltissime città della Federazione russa, dalle città principali, come Mosca e San Pietroburgo, fino alle località più remote. La repressione del regime è però stata feroce e in poche ore sono state arrestate oltre 1.300 persone. A questi ultimi in carcere è stata quindi consegnata la lettera di arruolamento.
Questo significa che i molti giovani che sono contro il regime e contro la guerra e che, invece di scappare sono rimasti per resistere, saranno i primi a partire e i primi a cadere sotto il fuoco delle armi occidentali inviate in Ucraina. Un’altra assurdità di questa assurda guerra.
Ma non pochi in Russia sono anche coloro che il regime lo sostengono e infatti solo il giorno successivo alla chiamata alle armi del Presidente, in 10mila si sono presentati volontari per partire a combattere in Ucraina. Spaccata a metà e dilaniata dalle divisioni, la Russia si prepara dunque a innalzare il livello dello scontro con l’Occidente, e non solo con l’invio al fronte di 300mila nuovi soldati, ma anche con l’utilizzo di una potenza di fuoco maggiore.
Dopo mesi di resistenza a una escalation, il presidente Vladimir Putin, sempre più isolato nel contesto internazionale e anche in quello interno, ha infatti ceduto alle pressioni dei nazionalisti presenti nelle forze armate e tra le fila della politica, e ha usato parole molto più pesanti di quanto fatto finora. “Questo non è un bluff – ha minacciato -. I cittadini della Russia possono essere certi che l’integrità territoriale della nostra patria, la nostra indipendenza e libertà saranno assicurate. Useremo tutti i mezzi a nostra disposizione. E coloro che stanno cercando di ricattarci con armi nucleari dovrebbero sapere che il vento può girare anche nella loro direzione”. La Russia non combatte “solo con l’Ucraina e l’Esercito ucraino – ha poi aggiunto il ministro della Difesa, Sergei Shoigu –, ma con la Nato e con tutto l’Occidente”.
Parole che sono piombate come un macigno sull’Assemblea generale dell’Onu, in pieno svolgimento a New York, scatenando la condanna unanime dell’Occidente. “Una guerra nucleare non può essere vinta e non dovrebbe mai essere combattuta”, ha detto il presidente americano Biden accusando Putin di aver proferito “irresponsabili minacce nucleari”. Washington pertanto ha confermato la sua linea, dalle sanzioni all’invio di armi, al sostegno senza tentennamenti all’Ucraina. Perché, dice Biden, “gli Stati Uniti vogliono che questa guerra finisca alle condizioni giuste” e la Russia “non può impadronirsi del territorio di una nazione con la forza”.