Se è vero che la miglior difesa è l’attacco, la scorsa settimana Anthony Albanese ha sicuramente pensato di avere fatto centro con tre scelte indubbiamente coraggiose, anche se per quanto riguarda le due legate agli ‘affari esteri’ piuttosto controverse, con rischi da non sottovalutare.
Una pronta reazione, tenendo d’occhio una parte dell’elettorato, quella dell’inchiesta avviata sul drammatico attacco al convoglio umanitario a Gaza, con una vittima australiana (motivo della reazione), a cui ha fatto seguito la dichiarazione di intenti di Penny Wong su un possibile riconoscimento, prima di qualsiasi accordo internazionale, di uno Stato palestinese. Poi giovedì scorso il ‘carico da 90’ giocato da Albanese sul ritorno all’interventismo industriale.
Anche in questo caso rischi, di diverso tipo ovviamente, con le spiegazioni extra di domenica scorsa del ministro del Tesoro, Jim Chalmers, che ha anticipato un interventismo soprattutto di carattere fiscale, con dettagli nel prossimo budget. Serviti tutti coloro che avevano accusato il primo ministro di non avere altri ‘credo’ al di fuori di quello della ‘Voce’: dopo la lunga pausa post-delusione referendaria e la preoccupante perdita di quota dovuta a inflazione e costo della vita, è arrivato il calcolato abbandono della promessa elettorale riguardante la terza fase degli sgravi fiscali di Morrison e Frydenberg. Una retromarcia non di certo improvvisata e altamente politica, all’insegna del ‘meno tasse per [quasi] tutti’, che funziona sempre, e che rientra in una più ampia strategia di riforme, che fanno parte del nuovo corso economico che Chalmers ha auspicato nel suo saggio dello scorso anno su una presunta era post-globalizzazione, accelerata dalla pandemia.
Albanese ha riconosciuto martedì scorso - convocando una riunione d’emergenza con i ministri della Difesa, Richard Marles e degli Esteri, Penny Wong e i vertici della Polizia federale e dei Servizi segreti – che, purtroppo, ci sono nel Paese delle tensioni a sfondo politico-religioso sicuramente gravi e inopportune che stanno mettendo a dura prova, tra l’altro, il lavoro della polizia: incresciose le scene di violenti scontri con le forze dell’ordine dopo l’accoltellamento di un vescovo ortodosso in una chiesa nel sud-ovest di Sydney, ma estremamente pericolose anche le manifestazioni di protesta pro-palestinesi tenutesi lunedì con danni alle centraline di controllo di alcuni semafori, a Melbourne, che hanno creato inutili rischi per gli automobilisti.
Non aiutano di certo a tenere il clima più tranquillo né l’inchiesta australiana sulla morte della volontaria Zomi Frankcom né l’affondo di Wong sulla drammatica situazione di Gaza. Scelte altamente politiche perché ci sono decine di migliaia di voti in palio e perché alcune convinzioni di una parte del partito hanno finalmente trovato le ragioni per essere messe in vetrina: Albanese, Wong, Richard Marles, Tony Burke perfettamente d’accordo anche perché le pressioni pro-Palestina in numerosi seggi non proprio sicurissimi ci sono. Le aspettative sono quelle di schierarsi e il governo lo ha cominciato a fare in parte perché ci crede e in parte perché conviene. Messe in conto anche le critiche di Peter Dutton che - iperbole alla mano che, purtroppo, in politica non mancano mai -, ha accusato Wong di avere provocato danni irreparabili alle relazioni tra Canberra e Tel Aviv. E “il tutto per semplice opportunismo”, ha detto il leader dell’opposizione, che poi si è lasciato andare con paragoni inaccettabili sulle reazioni o non reazioni del governo alle proteste (nei pressi dell’Opera House) post-attacco di Hamas del 7 ottobre con la strage di Port Arthur (in Tasmania) del 1996.
La verità è che qui si sta usando per scopi politici interni una vicenda che più storicamente complessa non potrebbe essere. Il conflitto arabo-israeliano è, infatti, iniziato 76 anni fa, un tempo e una ragione che dovrebbero insegnare che non basta un’annessione o una divisione di territori per garantire una pace. Basta pensare che nel 1948 i due Stati erano già stati decisi dalle Nazioni Unite, ma in quel momento i numeri non favorivano gli ebrei che, nello Stato a loro designato, erano circondati da milioni di arabi che vivevano in Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq. E qui nacque l’errore che continua ad avere le drammatiche conseguenze che abbiamo giornalmente davanti ai nostri occhi: gli arabi, infatti, rifiutarono il piano dell’Onu per un loro Stato a fianco di quello di Israele, convinti di poter prevalere con la forza annientando il ‘nemico’. E oggi siamo ancora qui a parlare della stessa soluzione, mentre purtroppo, almeno in parte, le stesse ragioni continuano ad alimentare un conflitto infinito.
Alta tensione nel Paese abbinata a paura, sgomento, rabbia per quello che è successo sabato nel centro commerciale di Sydney. Albanese, chiamato quindi a mostrare la massima vicinanza alle famiglie delle vittime e all’intera nazione. Costretto perciò a segnare il passo dal punto di vista strettamente politico, prima di poter rituffarsi su decisioni che in questi giorni sembrano meno importanti, ma sulle quali il governo giocherà una bella fetta delle sue credenziali per chiedere una riconferma il prossimo anno.
Il primo ministro aveva promesso un ritorno del ‘made in Australia’ e giovedì scorso l’ha ribadito sottolineando l’importanza di trovare il coraggio di battere nuove strade, anche in solitaria se necessario, basta crederci fino in fondo. “Dobbiamo pensare in modo diverso su quello che il governo può fare e deve fare per lavorare a fianco del settore privato per far crescere l’economia, per migliorare la produttività, per aumentare la competitività e assicurarsi una maggiore futura prosperità”, ha detto.
E per sostenere la sua voglia di ‘made in Australia’ ha fatto l’esempio di altri Paesi come gli Stati Uniti e la Corea del Sud che hanno spostato l’asticella verso l’interventismo industriale nell’interesse nazionale. E così ha lanciato una sfida, per ora solo virtuale, proprio agli Usa e alla Cina nel campo della produzione di pannelli solari e della creazione di quante più industrie possibili nel settore energetico, e delle rinnovabili in modo particolare. “Interventismo che non è un nuovo protezionismo”, ha assicurato Albanese, ma il puntare su un rilancio di una produzione propria, dopo le rinunce iniziate negli anni ‘70 e ‘80 che hanno smantellato il settore manufatturiero australiano.
‘Appel’ certo dell’idea del primo ministro, ma ci sono sicuramente rischi legati al progetto di incentivare a suon di soldi pubblici miliardari ‘fatti in casa’, come Mike Cannon-Brookes, Andrew Forrest o Gina Reinhart, a investire di più in Australia. Chalmers, intervenendo in proposito, è partito alla lontana parlando di un mondo che sta rapidamente cambiando e l’Australia che vuole essere parte di questo cambiamento. Un mondo che offre nuove opportunità di lavoro, di investimenti, di nuove aree produttive concatenate dall’obiettivo di emissioni nette zero del 2050.
Niente incentivi a pioggia, ha assicurato il ministro del Tesoro, ma una partnership ragionata pubblico-privato per incentivare e non rimpiazzare investimenti. Si punta insomma sul nuovo, sul diverso, sul futuro e non si pensa minimamente di correggere il presente. “E’ necessario spendere per arrivare dove vogliamo arrivare in campo energetico, questo è fuori dubbio – ha detto il ministro del Tesoro in un’intervista televisiva -. Dovremo spendere ancora centinaia di miliardi se vogliamo arrivare a questa trasformazione energetica, facendo diventare il paese una superpotenza nel campo delle rinnovabili, per assicurarsi un posto e un ruolo in un futuro che sarà dominato dall’economia a zero netto di emissioni”.
Per saperne di più però tutto rinviato al 14 maggio. Ci saranno grossi investimenti, questo è certo, ma faranno parte di “una strategia ben precisa che rientra negli obiettivi economici nazionali a lungo termine”, ha aggiunto Chalmers. “E l’arma delle agevolazioni fiscali – ha continuato – sarà solo una di quelle a disposizione che verranno usate”.
Funzionerà? Ci sono svariati miliardi in preventivo per attivare il progetto. A diverse aziende l’idea non dispiacerà di certo: rischi minimi, aiuti massimi, se va bene tutti contenti, se va male si farà presto a tirarsi indietro con perdite limitate. Ma soprattutto alla fine l’idea piace al pubblico: l’Australia che torna a produrre dopo le maxi-chiusure del passato di decine di industrie importanti come quelle automobilistica, degli elettrodomestici e delle acciaierie. Allettante ritorno al futuro. Ha funzionato elettoralmente perfino la promessa di Daniel Andres, nel Victoria, del ritorno della storica SEC (State Electricity Commission), lasciando a Jacinta Allan (alla quale ha passato le consegne dello Stato) il compito di annunciare che non si sarebbe fatto niente perché certe cose non si possono reiventare, i tempi cambiano e certe realtà semplicemente non si possono ripetere.
Albanese crede fermamente nel nuovo corso: il 14 maggio sapremo altri dettagli al riguardo e per il 2025 il progetto terrà di certo, dato che saremo ancora a livello di incentivi e non di risultati.