Finalmente diversa la risposta al budget: niente di speciale, pochi dettagli, ma qualche idea e, soprattutto, una chiara linea di separazione in vista dello scontro elettorale del prossimo anno. Il leader dell’opposizione Peter Dutton ha informato tutti che sa di avere davanti un sfida estremamente complicata, ma non ha nessuna intenzione di accettare la teoria dei due tempi “accontentandosi”, nel primo, di indebolire abbastanza il governo da rendere l’affondo del 2028 una formalità. Il leader dell’opposizione preferisce non indugiare e già tracciato, in linea di massima, i temi dell’offensiva per porre fine dopo un solo mandato all’esperimento laburista. Dutton ha fatto capire che gli australiani saranno chiamati a scegliere tra le ambizioni di un governo interventista guidato più da aspirazioni che fatti, e un’amministrazione intenzionata a rimanere con i piedi ben piantati a terra che propone risposte concrete, attuali, dirette a quelle che sono le richieste comprensibilmente realistiche della maggioranza degli australiani.

Nulla di più: nessun volo pindarico, nessun inseguimento di alcuna leadership globale, né energetica, né ideologica su una evoluzione del capitalismo e della globalizzazione che a più di qualcuno potrebbe dare l’impressione di un protezionismo di nuova generazione.
Dutton propone un ritorno ai principi fondamentali di un buon governo per ciò che riguarda l’economia, l’energia, l’esplorazione mineraria, l’immigrazione, le relazioni industriali, la sicurezza interna, la giustizia, il controllo delle piattaforme digitali, evitando di seguire un “nuovo corso politico improntato su priorità sbagliate”.

Il leader liberale ha, di fatto, dato il via con la sua risposta al budget alla sfida elettorale del 2025 anticipando, per l’ennesima volta, l’idea del “referendum” su come il primo ministro Anthony Albanese e il suo governo stanno cercando di cambiare il Paese. Più che legittimo pensare, dopo i due interventi programmatici di martedì e giovedì scorsi in Parlamento,  all’inizio di una lunghissima campagna elettorale, con lo sfidante che, rilanciando un po’ la strategia Howard degli anni ‘90, punta deciso ai “nuovi battlers”, ai lavoratori che non sono protetti dal vasto ombrello dell’ACTU (Confederazione nazionale dei sindacati), alla classe media, alle famiglie, a coloro che lottano per far quadrare il bilancio famigliare di settimana in settimana, alle piccole imprese commerciali, ai tanti senza voce e punti di riferimento che ritengono che la politica vera li abbia persi di vista, presa in ostaggio, come sembra essere, da un’elite che vuole insegnare più che ascoltare. 

Sul tavolo, per ora, da parte della Coalizione, solo principi-guida, pochissimi dettagli (oltre al taglio dell’immigrazione, in realtà promesse piuttosto generiche), ma una strategia che ha già fatto squillare numerosi campanelli d’allarme dal fronte delle grandi aziende, delle università, dei sindacati, delle compagnie finanziarie che gestiscono i fondi pensione, dal settore delle rinnovabili.
Da un lato quindi un governo che - come ha spiegato prima, durante e dopo il budget, Jim Chalmers - si sta preparando alla “più grande trasformazione dell’economia globale dai tempi della rivoluzione industriale” e che, per questo, punta ad un’evoluzione guidata della sua economia e del suo settore industriale per far diventare la nazione una super potenza nel campo dell’energia rinnovabile; dall’altro un leader che ha deciso, forse anche pensando al risultato del referendum costituzionale dello scorso anno, che una cosa sono i grandi progetti imposti dall’alto, un’altra sono le aspettative più semplici, comprensibili e realistiche dei cittadini. La politica, insomma, che non irrita, che non offende, che parla davvero dei prezzi sui banchi del supermercato, del costo della benzina alla pompa, della sicurezza nella vita di ogni giorno nelle proprie case, di un problema di alloggi ingigantito dall’arrivo di un’ondata senza precedenti di immigrati che semplicemente il Paese non è strutturalmente attrezzato a ricevere, della spinta sponsorizzata da verdi, teal e attivisti vari verso le automobili elettriche, dalle manifestazioni a getto continuo pro-palestinesi che ormai sembrano entrate a fare parte della nostra vita quotidiana.

Il problema, estremamente pratico per Dutton, è che la sua strategia terra-terra, che risultati potrebbe ottenere fra i ‘battlers’, difficilmente colmerà il vuoto estremamente diverso che si è creato nei collegi tradizionali, in seguito al fenomeno teal. E senza riprendersi qualcosa nei seggi che, fino a due anni fa, erano letteralmente fuori discussione in fatto di seguito, tradizioni e consensi, Dutton difficilmente riuscirà a spuntarla in un’elezione sicuramente tirata, con numeri primari molto simili a quelli del 2022. La prospettiva, insomma, del ripetersi (nella migliore delle ipotesi per i liberali) quello che è successo nel 2010, con un pari sbloccato da settimane di negoziati post voto per far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, è più reale che mai.

Il capo dell’opposizione sarà sicuramente sottoposto ad una campagna sull’uomo non indifferente: ‘un leader che guarda indietro invece che in avanti, non in contatto con un mondo cambiato’, Con un rischio però per i laburisti, di sottovalutare (come hanno fatto con la Voce) il rapporto che Dutton potrebbe avere con gli australiani in certe aree del Paese: non certo nelle grandi città, meno che meno nel Victoria, ma occhio a Queensland, Western Australia e le vaste zone minerarie, regionali e industriali del New South Wales. Economia, immigrazione, alloggi, relazioni industriali riportate ad un linguaggio e a soluzioni più immediate e tradizionali, abbinate ad un vigoroso taglio di spese, opponendosi da subito a quei 13,7 miliardi annunciati da Chalmers per incentivare lo sviluppo dell’idrogeno verde e dei minerali critici, lasciando ai privati l’iniziativa in materia, magari riducendo invece regolamentazioni e veti preventivi su nuovi progetti minerari.

Il nucleare rimane un’idea in un allargamento del mix energetico, continuando a sfruttare le risorse a disposizione (accelerazione in questo caso per  il potenziamento della produzione interna di gas), mentre scende d’intensità l’impeto della spinta miliardaria verso le rinnovabili, con meno partecipazione diretta del governo in questa corsa. Il problema per Dutton, in questo caso, è che la sua ‘grande differenziazione’, quella del nucleare (già difficilissima da vendere in un Paese dove è stato John Howard a far diventare legge il non parlarne), gettata in mischia orma diversi mesi fa, rimane in pista senza alcun segnale di decollo. Sappiamo tutto quello che non va, secondo la Coalizione, nel progetto Albanese-Chalmers-Chris Bowen (il ministro dell’Energia e dei Cambiamenti climatici) su pannelli solari, impianti eolici, nuove linee elettriche e di interconnessione, ma il piano d’alternativa ancora non c’è.

Albanese e Dutton, quindi, affilano le armi ma, dato che nessuno dei due sembra godere di una grandissima fiducia popolare,  c’è il rischio di una personalizzazione da subito della lunga sfida in cerca di consensi a colpi di scredito dell’avversario: un gioco al ribasso, purtroppo già visto, che può solo aiutare ad aumentare il malcontento generale nei confronti della politica e dei maggiori partiti, che viaggiano a livelli di voti primari davvero minimi, in linea con quelli del 2022. Un distacco dei cittadini sempre più accentuato, che porta ad una dispersione di voti con spazi sempre maggiori riempiti da partiti minori e indipendenti, in una frammentazione parlamentare che rende tutto molto meno lineare, con compromessi e spiacevoli aste che stanno sempre più allineando la politica e il Parlamento australiano al resto del mondo Qualcuno lo vede come un miglioramento, ma con mandati di tre anni, il tempo per premiare o riconoscere errori e cambiare, non è eccessivo e della complicazione del negoziato continuo si potrebbe tranquillamente fare a meno.
DARIO NELLI