Eh, già, con la penuria di carta igienica, diventata merce rara per tanti di noi, ad eccezione di coloro che ne hanno fatto incetta all’inizio della crisi dovuta al coronavirus, e poiché da alcuni anni i giornali si leggono online e i libri su Kindle, qualche problema c’è e come.
Certo, si può cercare conforto scorrendo sull’iPad un bell’articolo del New York Times dal titolo “Stop using toilet paper”. Veramente? Da quell’articolo si può apprendere che l’uso di carta a scopi igienici data almeno dal sesto secolo quando uno studente cinese scrisse che non osava ricorrere per questo scopo “ai grandi classici”. Ma prima che esistesse la carta? Uno studio informa che si impiegavano foglie, pellicce, conchiglie (??) e chissà che altro.
E torniamo al bidet. Non si sa con certezza la sua data di nascita. Quello che è certo è che il bidet era comune nella corte reale francese, al punto che Maria Antonietta, in attesa della ghigliottina, ne fece installare in cella uno bordato di rosso. I soldati americani venuti a liberare l’Europa li videro per la prima volta nei bordelli, li associarono al meretricio e, tornati in patria, preferirono continuare con la carta o, negli ultimi anni, con le salviette umidificate che stanno ostruendo le tubature sotterranee di New York.
Informa Wikipedia che in Italia sono obbligatori dal 1975, per decreto della Sanità, ministro Gullotti (Dc). Alla sua morte il Popolo scrisse: “Fu fondamentale la sua lezione di umiltà come signorilità". Tie’!, beccate questo.
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Sabato 11 aprile, vigilia di una Pasqua un po’ triste per molti italiani, senza ristoranti né pranzi in famiglia. Né abbacchio, né scottadito, spenti i forni alla faccia della tradizione. Ma c’è anche qualche essere che, silenziosamente, se la gode... Mi riferisco agli agnellini che a Roma si chiamano “abbacchi”. In Italia, un rappresentante di una ditta di produttori ovini, riferisce sconsolato: “L’anno scorso ne macellammo quarantamila, quest’anno solo ventitremila”. Diciassettemila si sono salvati senza sapere come mai un destino segnato fino ad un mese fa abbia cambiato corso. È un mistero e l’agnello non ha le capacità per risolverlo. Non può comprendere la catena di cause ed effetti (un pipistrello muore in Cina, un uomo abbraccia un altro che prende un aereo e va in Europa, sedendo accanto ad un’americana). Sa solo di essere salvo, senza manco essere finito in braccio a Berlusconi.
In questo momento siamo tutti nella condizione dell’agnello. Non abbiamo capito che cosa stia succedendo. Perché improvvisamente tanta gente muoia, come funziona la catena di conseguenze e dove e quando possa spezzarsi. Di essere salvi ringraziamo la provvidenza. Ed evitiamo di finire in braccio a un uomo della provvidenza.
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Dalla vigilia di Pasqua alla Pasquetta e andiamo alle conferenze stampa antivirus di Donald Trump: nella situazione tragica, un momento comico. Il presidente americano si presenta infastidito. Ha sbagliato i calcoli: pensava di chiuderla in sette giorni di show, ora, invece, deve andare avanti. Altrove è bollettino sanitario, con lui diventa di guerra. “Operazione Airbridge”. Coalizione di 182 Paesi sotto attacco. “Prima linea”. “La strategia funziona”. “Vinceremo”. “Orgoglio. Forza”. “Batteremo il mostro”. Trump detesta questo virus minuscolo che tiene fermo un Paese così grande, una volontà di potenza così illimitata. Tutto ciò lo offende, come fosse un incapace a bloccare la pandemia. E domani dovrà tornare sul palcoscenico che si è costruito, con altri numeri rossi, a garantire che la vittoria è vicina.
E a ringraziare chi sta facendo uno sforzo grandioso per ottenerla. Li ha appena incontrati in una riunione che definisce “incredibile”. Medici e infermieri? Samaritani? Soldati? No. Banchieri. Il presidente americano li ringrazia uno per uno, chiamandoli per nome, gli amministratori delegati delle principali banche e carte di credito. Vale la pena ricordare a Trump che nell’emergenza quello che conta è una frase del grande poeta mistico persiano Rumi (XIII secolo): “Al di là di ciò che è giusto e sbagliato c’è un campo. Ci vediamo là”. Poi, in quel campo, faremo i conti, aggiungo io.
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Chi lo sa se Trump non ricorra alle antiche panacee per risolvere il problema costituito dal coronavirus, come ad esempio “La più potente e invincibile arma che usar possino li medici contra ogni veleno totale, insanabile, horrendo, pestifero”. Ecco che cosa avrebbe suggerito contro il coronavirus lo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi verso la fine del Cinquecento: la Theriaca.
Scrisse infatti in un manoscritto, conservato a Bologna e da anni al centro degli studi di Barbara Di Gennaro Splendore, dell’Università di Yale, che grazie all’impiego della cerne di vipera nel miracolo medicamento “siccome la calamita tira il ferro... così la vipera in questa tanto desiderata Theriaca tira a se con gran vehemenza et prestezza ogni et qualunque veleno radicato in qual minera si voglia del corpo...”.
Sono millenni che l’uomo cerca qualcosa di prodigioso in grado di combattere i mali che via via si abbattono sulle popolazioni. Da molto prima che ciarlatani, spacciatori di unguenti 4.0 e untori millennials infettassero oggi il pianeta con fake news su farmaci giapponesi dannosi ai feti, sulle proprietà immaginifiche della vitamina C, sui gargarismi con la candeggina, sulle pozioni fai-da-te... Stupidari che richiamano gli anni sciagurati di Manto Tshabalala-Msimang, il ministro della Salute del Sudafrica che, al fianco del presidente Thabo Mbeki, giurava che contro l’Aids, più che i farmaci antivirali, funzionavano “cibi come aglio, limone, patate africane e barbabietole”.
Ed ecco, andando indietro nel tempo, la “panacea universale” che, come spiega la Treccani, fu la “denominazione assegnata dagli alchimisti al chermes, minerale ritenuto capace, oltre che di guarire ogni male, anche di prolungare indefinitamente la vita”. E l’opobàlsamo, olio ricavato dalla resina di un arbusto, chiamato appunto Balsamo, che pare crescesse solo nell’antico Egitto. E di cui avrebbe scritto per primo Dioscoride Pedanio, un botanico e medico greco vissuto a Roma ai tempi di Nerone. Una storia oscura e velata anche dal mistero della scomparsa (peraltro contestata) della pianta le cui virtù sarebbero state ‘riconosciute’ secoli e secoli dopo in un altro arbusto trovato sorprendentemente in America. Vero? Falso? Mah...
Chissà se ce lo potrà dire il presidente Trump, visto e considerato che questo misterioso arbusto si troverebbe proprio nel Paese che presiede e del quale vuole apparire come un vero profeta, dimenticando però che “Nemo Propheta in patria (nessuno è profeta in patria) è l’espressione latina tratta dalla frase “Nemo propheta acceptus est in patria sua” (Nessun profeta è gradito nella sua patria) e riferita ai quattro Vangeli come pronunciata da Gesù a Nazareth in riferimento all’accoglienza piuttosto fredda tributatagli dai suoi conterranei durante la liturgia della sinagoga.
Beh, magari in mezzo a tanto male chissà se gli americani facessero valere quel “nessuno è profeta in patria” anche quando andranno a votare per le prossimi presidenziali di novembre. Speriamo bene... per il bene degli americani.
(pietroschirru20@gmail.com)