Trump non è contento, Netanyahu ancora meno. Ma nei sobborghi occidentali di Sydney e Melbourne, Anthony Albanese ha sicuramente cementato consensi e autorità. La squadra laburista ha respinto, facendo blocco unito, la teoria della ‘vittoria di Hamas’ dopo l’ufficializzazione, alle Nazioni Unite, della decisione di riconoscere formalmente uno Stato palestinese (che ancora non esiste), in sintonia con una decina di altre nazioni, tra le quali Francia, Regno Unito e Canada, che sono andate a sommarsi alle 140 o giù di lì che l’avevano già fatto.

Una simbolica presa di posizione che, in termini pratici, non cambia nulla né per quanto riguarda la drammatica situazione di Gaza né per ciò che concerne la cosiddetta ‘soluzione dei due Stati’ per la pace in Medio Oriente che rimane più lontana che mai. Il primo ministro e la responsabile degli Esteri, Penny Wong, avevano anticipato la loro scelta ‘politica e morale’ qualche settimana fa, mandando su tutte le furie Netanyahu che aveva subito criticato, con toni duri, i propositi di Canberra e ora hanno semplicemente concretizzato il tutto, subordinando il progetto ad alcune, attualmente impossibili, condizioni: l’esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo; la consegna delle armi da parte del gruppo terroristico alle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese e la rinuncia a qualsiasi tipo di coinvolgimento in attività politica e militare nello Stretto di Gaza.

Da parte sua l’Autorità Palestinese deve smilitarizzarsi, tenere al più presto elezioni democratiche e applicare immediate riforme (dettate dall’Occidente) su governance, finanze e istruzione. Stranamente nessun cenno alla liberazione degli ostaggi. 

“Un errore”, ha sentenziato Netanyahu - contestando la decisione del riconoscimento della Palestina -, riaffermando che si tratta di una “ricompensa» per Hamas” e assicurando che, comunque, quello Stato “non si farà”. Nessuna conseguenza positiva pratica quindi, nessuna pressione extra su Israele, nonostante un po’ tutti (perfino Donald Trump) consideri che la risposta, che doveva esserci, dopo le atrocità del 7 ottobre di  due anni fa, sia ormai andata avanti troppo a lungo arrivando alla catastrofe umanitaria che si sta consumando a Gaza. 

Un errore anche secondo l’opposizione, che non ha perso un attimo per attaccare la scelta di Albanese di andare apertamente “contro Israele e gli Stati Uniti”. La leader liberale Sussan Ley ha addirittura inviato una lettera agli “amici  repubblicani” del Congresso USA per assicurare che un futuro governo di Coalizione farà marcia indietro su quell’inopportuno riconoscimento dello Stato palestinese. Ley ha poi insistito “legando” il mancato incontro tra Albanese e Trump, anche nell’occasione della Settimana Onu di New York, a questo “ennesimo sgarbo” nei confronti di due alleati storici come Israele e gli USA. 

La smentita, almeno su queste presunte conseguenze, è arrivata però, poche ore dopo, direttamente dalla Casa Bianca, con la conferma, che invece un tu per tu tra il presidente americano e il primo ministro è già stato concordato. 

Dopo settimane di speculazioni, quindi, la domanda che ha accompagnato qualsiasi conferenza stampa di Albanese, ha finalmente una risposta: il primo ministro incontrerà Donald Trump nello Studio Ovale il prossimo 20 ottobre. Salvo nuove cancellazioni, ovviamente. Stavolta, però, l’annuncio è arrivato direttamente da Washington: una mossa prudente da parte australiana, che ha atteso che fossero gli Stati Uniti a ufficializzare l’incontro prima di confermare qualsiasi dettaglio.

Il colloquio tra i due leader è stato definito “necessario” durante la famosa quarta telefonata di tre settimane fa. Secondo fonti a conoscenza della conversazione, Trump avrebbe indicato le sue intenzioni per un colloquio formale alla Casa Bianca piuttosto che un frettoloso bilaterale ai margini di qualche vertice internazionale. Per questo le recenti dichiarazioni pubbliche dello stesso presidente di un imminente incontro, a conferma che si stava già lavorando sulla data, e una certa rilassatezza del primo ministro al riguardo di una stretta di mano che ancora non c’è stata fra i due leader. 

Il faccia a faccia non sarà, a questo punto, una formalità diplomatica: è, infatti, strategicamente rilevante, soprattutto alla luce della crescente dipendenza australiana dagli Stati Uniti nell’ambito dell’accordo AUKUS e le preoccupazioni che le recenti missioni del primo ministro a Vanuatu e Papua Nuova Guinea hanno evidenziato per ciò che riguarda la sicurezza nell’area dell’Indo-Pacifico. 

Se ci sono tensioni o insoddisfazioni nei confronti di Canberra, Trump ha preferito ignorarle nel suo intervento alle Nazioni Unite dove, in un discorso infarcito di accuse e recriminazioni, non ha fatto alcun riferimento all’Australia. Il presidente USA, infatti, con il suo solito completo disinteresse per la diplomazia, ha attaccato apertamente Germania, Grecia, Austria e Svizzera per l’immigrazione “fuori controllo”; ha accusato Regno Unito e altri di essere complici di quella che definito la “truffa dell’energia verde”; ha puntato il dito contro il Brasile per presunte interferenze politiche negli Stati Uniti, e ha definito Cina e India i principali finanziatori della guerra russa in Ucraina. Solo una velata e generica condanna a quei Paesi che con la loro decisione di riconoscere lo Stato palestinese stanno facendo un enorme “regalo a Hamas”.

Tregua preventiva, dunque, o semplice dimenticanza? Durante il tu per tu nello Studio Ovale la risposta, perché, come ben sappiamo viste altre esperienze, potrebbe succedere un po’ di tutto, quindi Albanese sicuramente preparerà l’occasione con la massima attenzione e cautela. Le differenze tra i due leader sono note e un confronto in diretta, magari davanti alle telecamere, può facilmente prendere pieghe impreviste. Il primo ministro camminerà inevitabilmente su un terreno minato non potendo evitare di toccare, seppur con diplomazia, la questione dei dazi statunitensi, che per fortuna restano, nei confronti dell’Australia, tra i più bassi applicati dal nuovo corso americano. 

L’obiettivo principale del colloquio sarà, comunque, quello di costruire un rapporto personale con il presidente, consolidare il sostegno a lungo termine per il progetto dei sommergibili nucleari, ma soprattutto di stabilire qualche tipo di chiara intesa sulla questione estremamente delicata, e strategicamente importante, del coinvolgimento USA nell’area sempre più al centro di dinamiche globali dell’Indo-Pacifico: specie in relazione alle mosse di Pechino che stanno creando nuove incognite e sfide per tutti per ciò che riguarda la presenza militare, la libertà di navigazione, la dipendenza economica, l’accesso alle risorse naturali. Da non sottovalutare l’altro tema caldo del momento, che mette Australia e Stati Uniti in rotta di evidente collisione ideologica, della decarbonizzazione del Pianeta.  A gennaio, con due ordini esecutivi firmati a poche ore dall’inizio del suo secondo mandato, Trump aveva ribadito la volontà di portare gli USA non solo fuori dall’Oms, ma anche dagli Accordi di Parigi. Come già fatto durante il suo primo mandato, non hai mai nascosto la sua posizione fortemente critica sulla crisi climatica, tra scetticismo e negazionismo, parlando di “inevitabilità” del riscaldamento globale e accuse di complotti.

L’altro ieri al Palazzo di Vetro, Trump è tornato a ribadire le sue posizioni, definendo il problema del cambiamento climatico “la più grande truffa al mondo”. Puntando il dito contro la Cina per l’inquinamento globale ha affermato: “È tutta una follia. Se non usciamo da questo scherzo che io chiamo il Green, non avremo scampo”. Albanese non potrà sicuramente parlare con lui di “nuove opportunità” di investimenti, di un’Australia che ambisce a diventare leader mondiale delle rinnovabili, della necessità di una risposta coordinata alla crisi climatica liquidata dal presidente come “la strada per la bancarotta”.