Questi primi mesi del secondo mandato per il governo laburista hanno una sorta di retrogusto dolceamaro. Da un lato le urne di maggio hanno dato ad Albanese e al partito che guida una quasi certezza di restare al governo almeno fino alla fine di questo decennio. Dall’altro, però, quella che sarebbe potuta essere una seconda luna di miele alla luce di un consenso così ampio, si è trasformata in una situazione molto complessa, almeno a livello internazionale. 

Ma partiamo dalle note che, in prospettiva, potrebbero dare un valore positivo a questa esperienza di governo: oggi si conclude a Canberra la tavola rotonda sulle riforme economiche fortemente voluta dal ministro del Tesoro Jim Chalmers, con il macro-obiettivo di trovare un percorso comune per affrontare la stagnazione e gettare le basi di una nuova strategia di rilancio istituzionale, economico e sociale. 

Tutti intorno a un tavolo, parti sociali, organizzazioni industriali, rappresentanti del mondo finanziario e autorità regolamentari, ognuno a portare le proprie istanze per cercare di trovare un modello economico nazionale condiviso che possa rafforzare la capacità di resistenza dell’intero sistema, tenendo conto di un contesto sociale, tecnologico e industriale che muta con una velocità così rapida con un impatto ancora tutto da scoprire.

Dal governo l’intenzione di ottenere “vittorie comuni” nella lotta contro la burocrazia, individuando nella semplificazione normativa il punto di partenza per dare un impulso gli standard di vita. Non è un dettaglio tecnico, ma una battaglia politica su temi concreti, costruire più case, accelerare i progetti di energia verde e rivedere leggi considerate obsolete. Persino attori tradizionalmente contrapposti, come imprese e sindacati, si sono trovati d’accordo sulla necessità di rendere più snello il National Construction Code, troppo appesantito da costosi requisiti che, tra l’altro, non sempre migliorano la qualità delle abitazioni. 

Quello che Chalmers considera un elemento su cui tutte le parti in causa possano trarre beneficio è proprio legato alla necessità di trovare un meccanismo che, adeguato alle sfide di oggi e del futuro, possa offrire risposte rapide, affermative o negative che siano, soprattutto per quei progetti fondamentali per la ripresa economica, come il settore dell’edilizia e dell’estrazione mineraria. A tutto questo, va aggiunto il grande tema, a volte grande tabù, della transizione energetica e della sostenibilità rispetto al peso che avrà sulle tasche dei cittadini.

Ma, a prescindere dai dettagli e dalle ‘idee’ che cadranno dall’albero della tre giorni di Canberra, tutti elementi a cui dovrà seguire un piano d’azione concreto del governo, l’Australia di oggi, ma soprattutto quella che ambisce a un futuro di maggiore prosperità, ha bisogno di ridefinire non solo i processi, ma proprio il punto nodale dei suoi obiettivi economici, mirando a più innovazione, maggiore sostenibilità e più equità sociale. È una scommessa ambiziosa, che tocca proprio il centro del destino economico del Paese. 

A rendere, però, più amaro questo inizio di secondo mandato per Anthony Albanese c’è il contesto internazionale. La decisione sul riconoscimento dello Stato di Palestina, che, subordinatamente ad alcune condizioni, dovrebbe essere annunciato dal Primo ministro in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite fra qualche  settimana ha scatenato la reazione furiosa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha accusato il suo omologo australiano di essere “debole” e l’Australia di aver “tradito Israele” e “abbandonato la comunità ebraica locale”. Le parole del leader israeliano hanno aperto una frattura diplomatica che sembra di complessa ricomposizione. A conferma di questa difficoltà, le parole del ministro degli Esteri Penny Wong, che ha ritenuto le ritorsioni israeliane con la revoca dei visti a diplomatici australiani “ingiustificate” e ha ribadito, e il suo punto di vista su questo argomento non è certo una novità, la necessità della soluzione dei due Stati e di arrivare a un cessate il fuoco a Gaza.

Non è mai ideale arrivare a contrapposizioni diplomatiche di tale asprezza, meno che meno nell’ambito di una guerra dove si fronteggiano uno Stato democratico da una parte e un gruppo terroristico dall’altro, ma lo è ancora meno in questa fase storica.

L’Australia, di fatto, si sta schierando a brutto muso contro uno degli alleati più solidi e storici degli Stati Uniti. Lo abbiamo già detto in altre occasioni, Anthony Albanese ha tutto il diritto, se non il dovere, di rappresentare l’interesse nazionale australiano, e se è nell’interesse nazionale che il primo ministro intende rafforzare la pressione sul governo israeliano, lasciando purtroppo aperta la porta alle polemiche di chi teme che così facendo si dia respiro alle istanze dei terroristi di Hamas, è nelle sue prerogative di capo dell’esecutivo farlo.

Ovviamente, poi, a ogni azione corrisponde una reazione e le conseguenze, purtroppo, sono legate alle chiavi che Donald Trump, con il suo approccio negoziale così dirompente, potrebbe decidere di utilizzare per ‘difendere’ le ragioni dell’alleato israeliano.
In ballo, ad oggi, ci sono un po’ di punti interrogativi, tra cui la spada di Damocle dei dazi, una delle armi più utilizzate dal capo della Casa Bianca per raggiungere obiettivi di compromesso con i partner commerciali degli Stati Uniti, e l’accordo AUKUS che, pur lontano nel tempo in termini di realizzazione concreta, rappresenta uno strumento ritenuto essenziale per garantire centralità all’Australia nel complicato scacchiere dell’Indopacifico.

Insomma questi due aspetti, la visione di un Paese che punti su progresso economico e sociale e le complesse dinamiche geopolitiche, si vanno a intersecare, da una parte ci troviamo davanti a una sorta di laboratorio riformista destinato a essere testato verso l’auspicato aumento della produttività, mentre dall’altro è chiaro a tutti come la capacità di navigare il periglioso mare delle relazioni internazionali misurerà la capacità strategica e politica di Anthony Albanese in un contesto globale segnato da conflitti e fragili alleanze.