Nel pieno rispetto della legge, ma con l’evocazione del ciceroniano summum ius summa iniuria. Cento anni fa, esattamente il 6 aprile, l’Italia veniva chiamata alle urne con una formulazione legislativa che doveva darle stabilità e governabilità. Il testo del disegno di legge era del sottosegretario alla presidenza del consiglio Giacomo Acerbo, che inseriva nel sistema proporzionale adottato nel 1919 un premio di maggioranza al partito risultato primo con almeno il 25% delle preferenze, soglia che garantiva ben i due terzi dei seggi.
Il testo licenziato dal consiglio dei ministri del governo di Benito Mussolini era stato quindi sottoposto alla Camera dei deputati per l’analisi di una commissione di 18 membri tra cui spiccavano per autorevolezza Giovanni Giolitti (presidente), Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Ivanoe Bonomi, Alcide de Gasperi, Filippo Turati, Raffaele Paolucci. Nella votazione che seguì la proposta di alzare il quorum e abbassare il premio, rigettata dopo un aspro quanto scontato dibattito, la commissione approvò il dettato legislativo così com’era con dieci voti a favore e otto contrari.
Il quasi “en plein” del Listone
E così il 18 novembre 1923, con numero 2444, vedeva la luce quella che è passata alla storia come Legge Acerbo. Sarebbe stata applicata una sola volta, il 6 aprile 1924, e avrebbe sancito secondo gli auspici di Mussolini il trionfo della Lista nazionale (il “Listone” del Partito nazionale fascista allargato), che con oltre 4 milioni di voti (poco più del 60%) si sarebbe aggiudicato 355 seggi sui 535 della Camera dei deputati (il Senato era invece di nomina regia). I candidati erano peraltro appena uno di più, 356, e l’“en plein” non ci fu solo per la morte di Giuseppe de Nava. Tanto per stare sicuri, era stato presentato pure un listino d’appoggio, la Lista nazionale bis, che aveva racimolato 19 seggi con poco meno di 350.000 preferenze. Mussolini aveva voluto che il Listone accogliesse candidature individuali di componenti di altri partiti disponibili a un’“attiva e disinteressata collaborazione” e pertanto “al di fuori, al di sopra e contro i partiti” stessi, “disposti a collaborare con una maggioranza fascista”. E infatti c’erano confluiti Orlando e Salandra, e in un primo tempo anche Enrico De Nicola.
Niente diritto di voto alle donne e ai militari
In lizza c’erano ben 23 formazioni politiche con 1.306 candidati e 346 deputati uscenti. Alle urne si recò a votare quasi il 64% degli aventi diritto (7,6 milioni su 12), ma questo diritto non l’avevano le donne nella loro totalità e in via eccezionale neppure gli appartenenti alle Forze armate, truppa e sottufficiali. Il Partito popolare, lacerato al suo interno, supererà d’un soffio la quota del 9% valida per 39 seggi. La Legge Acerbo era frutto dei tempi e di un disegno che mirava a rafforzare il potere parlamentare di Mussolini: la sua applicazione sul campo si rivelò una tappa importante per la nascita del regime.
Brogli e intimidazioni ai seggi
La tornata elettorale fu contraddistinta da forzature, violenze, brogli, presìdi delle camicie nere ai seggi con condizionamenti e minacce. Le segnalazioni di numerosi casi avvenuti nelle circoscrizioni da parte dei deputati di minoranza alla Giunta per le elezioni, avanzate il 30 maggio con lo scopo di farle annullare, furono respinte e la Camera convalidò in blocco l’elezione di tutti i deputati di maggioranza.
Il discorso di Matteotti
Il socialista Giacomo Matteotti protestò quello stesso giorno pubblicamente, in un discorso alla Camera continuamente interrotto. “L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso - come ha dichiarato replicatamente - avrebbe mantenuto il potere con la forza. (…) Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso. (…) Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. (…) Forse al Messico si usano fare le elezioni non con le schede, ma col coraggio di fronte alle rivoltelle. E chiedo scusa al Messico, se non è vero”».
Verso il regime
Se anche non fosse stata applicata la Legge Acerbo, Listone e listino avevano raccolto dalle urne lo stesso bottino che costituiva il premio di maggioranza, con circa il 65% dei voti. Il rapimento e l’omicidio di Giacomo Matteotti da parte di una squadra guidata da Amerigo Dùmini il 10 giugno 1924 e la pubblica assunzione di responsabilità “politica, morale, storica” di Mussolini nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, invece di determinare il crollo del sistema nel momento di massima debolezza del fascismo, con la scelta della Secessione aventiniana schiuse la strada alla dittatura. Le elezioni del 6 aprile erano state le ultime. Dopo di esse i partiti furono sciolti. In Italia si tornerà a votare nel 1946, per voltare definitivamente la pagina del Ventennio e della monarchia che l’aveva permesso e avallato in tutte le scelte.