MONTEVIDEO - La storia di una delle battaglie civili e giudiziarie più dure del Ventesimo secolo è sbarcata alla Facoltà di Scienze Sociali (FCS) di Montevideo. Dalle sanguinose guerre interne di Cosa Nostra negli anni ‘80 fino all’orrore delle stragi di Capaci e Via D’Amelio nel 1992 e 1993, l’Italia ha combattuto per la sopravvivenza delle sue istituzioni democratiche.
A raccontare questa epopea di crimine organizzato e la coraggiosa risposta dello Stato è stato l’ex magistrato Giovanni Salvi, testimone diretto e protagonista di quegli anni cruciali. Una conferenza che ha offerto un’analisi profonda e critica dell’esperienza italiana, pur riconoscendo che ogni Paese deve affrontare le sfide con i mezzi più adatti alla propria specificità. Salvi ha subito sottolineato il prezzo altissimo pagato dall’Italia: 24 magistrati assassinati, oltre a innumerevoli membri delle forze dell’ordine, politici, giornalisti e persone comuni.
L’esperienza italiana, ha ricordato Salvi, si è sviluppata in un contesto complesso, dove il Paese ha dovuto affrontare simultaneamente la minaccia del terrorismo politico e l’aggressione della criminalità organizzata negli anni ‘70 e ‘80.
Giovanni Salvi, figura di spicco della magistratura italiana, ha dedicato la sua carriera alla lotta contro Cosa Nostra e la Camorra. Il suo coinvolgimento in indagini di grande risonanza include gli omicidi del banchiere Roberto Calvi e del giornalista Mino Pecorelli. Ha inoltre collaborato con il celebre giudice Giovanni Falcone nell’inchiesta sull’attentato contro il fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Un focus particolare è stato dedicato alle fasi cruciali del Maxi Processo (1986–1987) e all’eredità del giudice Giovanni Falcone.
Salvi ha ripercorso l’escalation del potere mafioso, iniziata nel secondo dopoguerra con la riorganizzazione delle mafie dopo la caduta del fascismo. Le mafie approfittarono dell’instabilità per infiltrarsi nei mercati neri e, agendo nell’ombra, si radicarono profondamente nel tessuto politico ed economico del Paese.
Durante gli anni ‘70 e inizio anni ‘80, le mafie si imposero come attori principali nel narcotraffico internazionale (in particolare l’eroina), con la Sicilia occidentale come un centro nevralgico di produzione e spaccio.
La crescente potenza mafiosa portò inevitabilmente a un’escalation di violenza e conflitti interni, culminata con la seconda guerra di mafia a Palermo, tra il 1981 e il 1983, che provocò circa 600 vittime e portò all’emergere del clan dei Corleonesi.
Questa fase scatenò un’offensiva mirata contro i rappresentanti del Paese, perpetrando attacchi mortali contro politici, magistrati, giornalisti e forze dell’ordine, come le uccisioni di Piersanti Mattarella (1980) e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982).
La risposta dello Stato fu rapida e decisiva: nel 1982 fu emanata la legge Rognoni-La Torre, che introdusse il reato di associazione mafiosa (Art. 416-bis) e rafforzò gli strumenti investigativi. Inoltre, fu creata una struttura investigativa innovativa, il pool di magistrati, guidato inizialmente da Rocco Chinnici e poi portato avanti da Falcone, che permise di elaborare una visione unitaria del fenomeno mafioso.
Un’incredibile svolta fu il pentimento di Tommaso Buscetta nel 1984, che collaborò descrivendo per la prima volta con precisione la struttura e i rituali di Cosa Nostra, smantellando il muro di omertà.
Questi elementi confluirono nel Maxi Processo di Palermo (1986–1987), che coinvolse centinaia di imputati e culminò con condanne di lunga durata, segnando un momento fondamentale nella lotta contro la criminalità organizzata.
La mafia rispose a questa storica sconfitta giudiziaria con un’inaudita violenza terroristica: le stragi di Capaci e Via D’Amelio (Falcone e Borsellino) e, successivamente, gli attentati a Roma, Firenze e Milano nel 1993, nel tentativo disperato di costringere lo Stato a concessioni.
Nonostante la minaccia gravissima, lo Stato e la società civile si sono dimostrati inaspettatamente tenaci: l’impegno contro le mafie si è mantenuto saldo, portando i risultati che oggi si misurano in un crollo degli omicidi in Italia dal picco del 1991 (circa 2.000) a meno di 300 attuali. Questa esperienza ha anche sviluppato nuove capacità investigative (indagini bancarie, intercettazioni, lavoro in pool) che hanno poi reso possibili le indagini sulla corruzione.
La conferenza di Giovanni Salvi è stata arricchita da un panel di commentatori esperti che hanno arricchito il dibattito, fornendo prospettive locali cruciali. Hanno partecipato Mariela Solari (ex direttrice dell’Unità Vittime e Testimoni della Procura Generale della Nazione), Rodrigo Morosoli (procuratore specializzato in stupefacenti della Procura Generale della Nazione) e Lucas Silva (giornalista del quotidiano La Diaria).
Il dibattito, moderato da Gabriel Tenenbaum (docente e ricercatore del Dipartimento di Sociologia della Facoltà), si è concentrato su come questa inestimabile esperienza italiana possa fungere da modello e punto di partenza per migliorare le politiche e i procedimenti locali.
Gli esperti hanno formulato riflessioni incisive sulla necessità che l’Uruguay tragga insegnamento dalla storia italiana, in un contesto dove la criminalità organizzata sta diventando un problema sempre più complesso e urgente nell’agenda nazionale, richiedendo nuove strategie e un rafforzamento delle istituzioni in prima linea.