La fine del mondo, per María Josefina Cerutti, ha un luogo, una data e un’ora precisa: la tenuta vinicola di famiglia, a Chacras de Coria (Mendoza), alle due del mattino del 12 gennaio 1977. Sono i giorni più torridi dell’estate australe. Il tempo della vendemmia è ancora lontano, mancano circa due mesi, anche se i grappoli stanno cominciando a maturare sulle viti.

I Cerutti sono produttori di vino conosciuti in tutta la provincia di Mendoza: la loro si potrebbe definire una storia di migrazione di successo. La casona colonica e la terra di loro proprietà, coltivata a Malbeq e Barbera, sono il sogno americano diventato realtà di Manuel, che si chiamava ancora Emanuele quando, ventenne, aveva lasciato Borgomanero, in Piemonte, nel 1885. Alla sua morte, nel 1943, di beni da dividere tra gli eredi ce n’erano in abbondanza. Al figlio Victorio era andata la “Casa Grande”, dove viveva con la moglie e la famiglia del figlio Coco, padre di María Josefina. In un’altra casa abitava la figlia Malou con il marito Omar.

Stanno tutti dormendo, quando 15 militari armati fanno irruzione nelle due proprietà e trascinano via Victorio, all’epoca 76enne, e il genero Omar. Nessuno li rivedrà. Si sa che finirono alla Esma, la tristemente famosa scuola per sottoufficiali della Marina, a Buenos Aires, trasformata in centro clandestino di detenzione, dove si praticava la tortura e dal quale poche persone sono uscite vive. La camicia a quadri del nonno, rimasta nella memoria di qualche sopravvissuto, ha permesso di seguirne le tracce. Victor e Omar, con ogni probabilità, furono buttati da un aereo nel Rio de la Plata, il fiume marrone e fangoso così immenso che i migranti, arrivati in piroscafo al porto di Buenos Aires, lo scambiavano per l’oceano. Li chiamavano “i voli della morte”.

Ma nel gennaio 1977 l’orrore di questo epilogo non era nemmeno immaginabile. “Ricordo lo sgomento, l’angoscia di quei giorni – dice María Josefina, che allora era un’adolescente e che alla vicenda ha dedicato il libro “Casita robada” (Edizioni Sudamericana, pubblicato in Italia da Interlinea con il titolo “Vino amaro”) –. Mio padre sembrava impazzito, e poi è impazzito sul serio. Abbiamo smosso le montagne per trovarli, ma è stato inutile. Ci dicevano che a rapirli erano stati i terroristi”.

Quattro mesi più tardi, i terreni di Victorio cambiarono di proprietà. Sotto tortura era stato costretto a firmare un atto di vendita a un prestanome dell’ammiraglio Emilio Massera, uno degli autori del colpo di Stato del 24 marzo 1976, che oggi in Argentina si rievoca come il Giorno della Memoria. La nonna fu quasi obbligata a svendere la Casa Grande, zia Malou ad abbandonare la sua. “Per noi furono gli anni dell’esilio, in Italia e in altre parti del mondo – ricorda María Josefina –. Il mio mondo era esploso, la mia famiglia era smembrata, divisa, non esisteva più”.

Victorio e Omar sono due dei 30mila desaparecidos vittime della dittatura argentina. Se si scorressero i loro nomi e cognomi a uno a uno, si noterebbe subito che molti di loro sono italiani. Come i fratelli Boitano, Miguel Angel e Adriana, sequestrati rispettivamente il 29 maggio 1976 e il 24 aprile 1977, figli di Ángela “Lita” Paolin Boitano, oggi ultranovantenne, infaticabile nella sua ricerca di verità e giustizia, tanto da essere diventata la referente per gli italiani dell’associazione Familiares de Desaparecidos y Detenidos por Razones Politicas (Familiari di desaparecidos e detenuti per ragioni politiche), il primo organismo per i diritti umani nato durante la dittatura, nel 1976.

Graciela Lois, il cui marito è stato sequestrato quando lei era incinta di 7 mesi, era compagna di università di “Migue” (come lei stessa lo chiama, secondo l’abitudine tutta argentina di accorciare i nomi) Boitano. “Venni a sapere che la Lega Argentina per i Diritti dell’Uomo ci avrebbe aiutato a presentare la richiesta di habeas corpus – dice –. In quei giorni nessun avvocato era disposto ad assisterci, per la paura di ritorsioni. È lì che ho ritrovato Lita e da allora abbiamo lottato insieme, prima nella speranza di rivederli vivi, poi per la giustizia”.

E i sopravvissuti? È la solitudine la condizione di chi ha attraversato l’inferno del sequestro, della tortura, della prigione, del terrore per sé e per la propria famiglia, dell’angoscia di chi viene espropriato persino della facoltà di disporre del proprio corpo. Lo sa bene Marco Bechis, salvato una telefonata fatta ai suoi genitori, in Italia, dalla ragazza che era con lui al momento del sequestro, che ha consentito di muovere tutte le conoscenze possibili a Buenos Aires e farlo liberare.

Regista e scrittore, ha raccontato la sua esperienza nel film “Garage Olimpo” (1999) e nel libro “La solitudine del sovversivo” (Guanda), nel quale parla anche del “dopo”: della liberazione, del bisogno essere ascoltato nella consapevolezza di non essere compreso, del senso di colpa del sopravvissuto, della rabbia, dell’impotenza, della disperazione di chi si attacca voracemente alla vita ma si ritrova circondato da lapidi. “In Argentina torno come turista, ma non è più la mia terra – rivela –. Non potrei viverci, pesano troppo le assenze”.

Alberto Todaro è un professore di inglese siciliano travolto dall’impatto con la storia argentina in occasione del suo viaggio di nozze, nel 2008. Mosso dalla curiosità di saperne di più, scopre che quattro desaparecidos erano nati in Sicilia, la sua stessa terra. E decide di scrivere su di loro la sua tesi di dottorato, per ricostruire la loro storia e coltivare la memoria. Sono Salvatore Privitera, di Grammichele (Catania), medico impegnato nell’assistenza ai poveri delle villas, i quartieri marginali.

Claudio Di Rosa, di Piazza Armerina (Enna), del quale è riuscito a rintracciare la fidanzata di allora, che oggi vive in Israele, si è sposata, ma si chiede ancora come sarebbe stata la sua vita se Claudio non fosse morto. Vincenzo Fiore, di San Mauro Castelverde (Palermo), sindacalista alla Renault, figlio di Pina de Fiore, che poi si è unita alle madri di Plaza de Mayo, il movimento delle donne che chiedono giustizia per i figli. Giovanni Camiolo, di Valguarnera Caropepe (Enna), muratore. “Al momento del sequestro gli hanno pure rubato il furgone – racconta Todaro – e la famiglia per anni ha ricevuto multe per infrazioni commesse da altri, forse i carnefici del figlio”.

Quattro storie diverse, quattro vite unite dall’esperienza della migrazione, interrotte senza avere avuto la possibilità di rivedere il proprio paese. Come onorarle? Come ricordarle? Alberto Todaro ha scritto ai sindaci delle loro città di origine, chiedendo di dedicare a ognuno una strada, una piazza o un parco.

Marco Bechis, spesso invitato nelle scuole a raccontare la sua esperienza ai ragazzi, ritiene che siano questi i luoghi di trasmissione della memoria, per analizzare, studiare, capire le cause e le circostanze che hanno permesso tanto orrore.

La Esma, oggi trasformata in museo, accoglie ogni giorno studenti provenienti da tutta l’Argentina. Serena Cinelli, docente di Scienze Umane nella scuola secondaria italiana Cristoforo Colombo di Buenos Aires, commenta la visita organizzata pochi giorni fa con i ragazzi dell’ultimo anno. “Restano molto impressionati quando nel territorio vicino a loro possono incontrare e sperimentare i temi che in classe si studiano in modo teorico – dice –. Finalmente vedono la storia come parte della loro realtà. La visita stimola inquietudini e domande che verranno riprese in classe. Capire il passato per interpretare il presente”.

María Josefina Cerutti racconta con voce spezzata l’emozione di vedere i nomi di Victorio e Omar incisi al Parco della Memoria di Buenos Aires, dove la nipote Matilda, figlia di sua sorella, ha voluto portare un fiore, chiedendo che un petalo toccasse il nome del suo bisnonno. Ma la memoria non basta.

E nemmeno la scrittura: “Ho pianto molto, mentre lavoravo al libro” dice. Ma perché questo esercizio non resti solo un grido di dolore senza fine, che non ha nulla di liberatorio, è necessario che si accompagni alla giustizia. “Nel 2015 sono stata chiamata come testimone nel processo contro i repressori della Esma – dice –. Ho raccontato chi era Victorio, chi era Omar, chi erano i Cerutti. E ho potuto farlo guardando negli occhi i loro assassini”.