La perfezione dell’incompletezza. Franz Kafka non era abbastanza ebreo, non era abbastanza tedesco, non era abbastanza ceco. Così come non era abbastanza certo della sua grandezza, che forse aveva intuito. Se ne andava consumato dalla tubercolosi il 3 giugno 1924, un mese prima dei suoi 41 anni, in un percorso di vita incompiuto come la sua arte, cosa che non gli ha impedito di entrare nell’olimpo della letteratura e della cultura universale. Kafka è inconfondibile, il suo stile è kafkiano e nient’altro, mentre gli epigoni kafkiani sono come gli abitanti di Lilliput davanti al gigante Gulliver, apparso dal nulla nell’impero ancora per poco Austria felix. A Praga, terra di magia e di esoterismo, patria del Golem e culla della cabala ebraica, toccò al figlio di un borghese incarnare l’inviluppo soffocante della burocrazia e di un potere proteiforme che nel cuore dell’Europa tentava inutilmente di tenere assieme popoli diversi frenandone la forza centrifuga verso gli Stati nazionali. Franz vede la luce nella città vecchia il 13 luglio 1883, primogenito di una famiglia nelle cui vene scorre il sangue del commercio, da parte del padre Hermann in piccola dimensione lavorativa e della madre Julie Lowy perché proveniente da una famiglia agiata. 

I fratelli Georg ed Heinrich non supereranno i 15 e i 6 mesi di età, mentre le sorelle Gabriele (Elli), Valerie (Valli) e Ottilie (Ottla) destinate a sopravvivergli saranno assassinate nei lager nazisti durante la Shoah tra il 1942 e il 1943. La sua lingua madre e di formazione scolastica è il tedesco, il ceco lo parla ma non lo padroneggia e non lo userà nella sua opera. Nell’esperienza universitaria passerà da giurisprudenza a chimica a germanistica, per ritornare agli studi di legge che completerà, come desiderato dal padre, lasciando la pratica forense in tribunale per un posto nelle Assicurazioni Generali. Sarà questo il suo lavoro dal 1906 al 1922, quando otterrà di andare in pensione per motivi di salute.

Scrive per proiettare la mente oltre la scrivania, oltre la finestra, oltre il tran tran quotidiano. Pubblica per la prima volta nel 1908 sulla rivista Hyperion, si fidanza per la prima volta nel 1914 con Felice Bauer, conosciuta a Berlino. Da nessuna delle due esperienze germina un caposaldo della sua esistenza: non avvia un’attività editoriale e non arriva al matrimonio. Incostante nella sua linearità non solo intellettuale, il soffio del genio non smuove le vele del successo, e non per la brevità della sua esistenza, ma lo condusse nel porto dei grandi della letteratura di tutti i tempi. Kafka si può amare o non lo si può sopportare, ma è impossibile restare indifferenti al suo pensiero. Presago della fine, per una malattia che allora non perdonava, ridusse in cenere quello che aveva scritto, e disse all’amico Max Brod, conosciuto nel 1902, di fare un falò di tutto il resto dopo la morte. Proprio perché gli era amico e ne riconosceva la grandezza, Brod non volle rispettare le sue ultime volontà, e mai scelta di infedeltà fu tanto etica.

Nei poco più di 20 anni di scrittura ben poco si trasformò in libro: il mercato editoriale accolse alcuni racconti, tra cui “Metamorfosi”, sempre su riviste, ma nessun romanzo, come i capolavori “Il processo”, “Amerika”, “Il castello”. Non ne terminò nessuno, come se la mancanza di un finale fosse essa stessa una fine aperta. Era un uomo del suo tempo e un uomo senza tempo, di una classicità fuori da schemi, correnti e gabbie critiche. Nessuno come lui ha indagato nell’uomo contemporaneo e nel mondo contemporaneo che lo contiene. Un mondo che passava dalla carrozza a cavalli all’automobile e dall’automobile all’aeroplano; dall’artigianato alla tecnologia; dalla Belle Epoque agli sfracelli della prima guerra mondiale; dall’operetta di Franz Lehar alla dodecafonia di Arnold Schoenberg, ambedue ebrei; dalla medicina del corpo a quella dell’anima con la psicanalisi di Sigmund Freud, anch’egli ebreo.

Kafka usa la lingua tedesca, ma le lettere sentimentali sono in ceco; lo yiddish che pure veniva parlato in famiglia, lo affascina solo in un secondo tempo ed è un amore forte. Quello carnale lo accende di passioni, ma quello fisico lo attrae e lo infastidisce. Non sa quello che vuole o non sa compiere un passo decisivo in avanti. Ha scansato l’impiego nella fabbrica di amianto di famiglia a Praga rimanendone socio ma lasciando che se ne occupi il cognato Karl Hermann, non aveva avuto modo di affezionarsi ai luoghi in cui viveva perché la famiglia, nell’ascesa sociale, cambia casa in continuazione: dal ghetto scuro alla Praga magica pulsante di vita e di opportunità. Kafka è ombroso e cupo con una verniciata esteriore di umorismo e giovialità, tanto quanto è abile a mettere in luce gli aspetti più reconditi dell’uomo, perché cerca di illuminare se stesso. Compila polizze e scrive con una febbre creativa che lo esprime compiutamente.

Praga, da dimenticata Caput Regni dei fasti della Boemia e del Sacro Romano Impero, è dal 1918 la capitale di una repubblica sorta dalla disgregazione della creatura multinazionale degli Asburgo condannata all’estinzione. È la città cosmopolita in cui l’arte si spande come il profumo dei caffè alla moda e della pasticceria, delle bollicine dello champagne e della schiuma della birra. È la città della musica e del silenzio, dei colori e del buio, della folla e dell’intimismo, dei grandi palazzi e dei microspazi come nella via degli alchimisti. Kafka è a sua volta un cosmopolita vero, parla diverse lingue, guarda oltre le barriere, delle nazioni come creature dei popoli e della burocrazia come matrigna tutrice dell’individuo. Va anche oltre il mito e le leggende, il simbolismo e la metafora. Va persino oltre la modernità. L’espressione dell’amore è l’epistola, prima ancora che la donna, perché è carnalità traslata, è l’idealizzazione della passione. Passa da Felice Bauer a Grete Bloch, da Julie Wohryzek a Milena Jesenská, e quindi all’ebrea polacca Dora Diamant attorno alla quale realizza il sogno utopistico e favolistico di emigrare in Palestina per aprire un locale, dove lui serve al banco e lei spignatta in cucina. Quando pensa questo, come un bambino che si disegna una piccola arcadia senza sapere cosa sia, si trova nel sanatorio di Kierling, nei pressi di Vienna. 

La vita che ha provato a capire e a spiegare, gli stava sfuggendo. Aveva immaginato cose incredibili ma nell’intimità domestica non era andato oltre questo desiderio borghese. Chiede a Max Brod di non fargli sopravvivere editi e inediti: ‘La mia ultima richiesta: tutto quello che lascio dietro di me (…) diari, manoscritti, lettere (mie e di altri), bozze e così via, va bruciato e non letto’. Brod non fu il solo a tradirne la parola per rimanere fedele allo spirito, perché anche le donne della sua vita non distrussero affatto i suoi scritti: Milena conservò i Diari, le altre le corrispondenze. Questo patrimonio non oltrepassò integralmente la guerra e la persecuzione nazista, ma il pensiero e l’opera si salvarono dal cupio dissolvi di Kafka. Fu questa la metamorfosi perfetta.