Per la sua bellezza era stata soprannominata Stella, per la sua spregiudicatezza diventerà la Pantera Nera, ‘la spia di piazza Giudia’. Celeste Di Porto nacque il 29 luglio 1925 nel cuore del ghetto ebraico di Roma, in una famiglia umile e laboriosa. 

La sua infanzia si svolse tra vicoli stretti e piazzette affollate, dove i bambini giocavano tra cesti di frutta, carretti e il rumore dei mercanti ambulanti. Il ghetto era un mondo a sé, con le sue regole, le sue paure, le sue solidarietà e le sue tensioni. Lì, tra odori di pane fresco, spezie e legno bruciato, Celeste imparò presto a osservare le persone, a leggere gli sguardi e a capire le debolezze degli altri.

Fin da giovanissima entrò a servizio, prima nelle case delle famiglie ebraiche più agiate e poi nei ristoranti del centro. Il Fantino, in piazza Giudia, divenne presto il suo mondo: tra tavoli e cucine, camerieri e clienti, imparò a muoversi con disinvoltura tra mondi diversi, dove si mescolavano ricchezza, fame e piccoli poteri quotidiani. Il lavoro le offriva non solo un sostentamento, ma anche una forma d’istruzione pratica sulla vita adulta, sui rapporti di forza e sulle fragilità umane.

Quando nel 1938 l’Italia fascista promulgò le Leggi razziali, la situazione cambiò radicalmente. Le discriminazioni iniziarono a intaccare ogni aspetto della vita degli ebrei: scuole, posti di lavoro, diritti civili. Celeste, allora 16enne, continuava a lavorare al ristorante frequentato anche da camicie nere. Tra quei clienti spiccava Vincenzo Antonelli, uomo carismatico ma ambiguo, capace di sfoggiare in pubblico l’antisemitismo, e nel privato l’abilità di sedurre giovani donne ebree. Celeste, promessa sposa a un giovane correligionario, scelse di legarsi a lui, mostrando una sorprendente spregiudicatezza che mescolava attrazione, ambizione e la necessità di trovare una protezione in tempi di crescente pericolo.

Con l’occupazione nazista, la vita si fece ancora più dura. Le persecuzioni tedesche erano spietate: deportazioni, retate, soprusi quotidiani. La bellezza di Celeste e le sue conoscenze nei circoli fascisti le garantirono un apparente scudo, che presto trasformò in opportunità. Cominciò a intercedere per parenti e amici, avvisandoli del pericolo grazie alla sua rete di conoscenze tra ufficiali e funzionari. Allo stesso tempo, percepiva denaro per ogni ebreo denunciato: fino a 5.000 lire per ciascuno, una cifra considerevole per una ragazza di 18 anni. In pochi mesi, Stella diventò così la Pantera Nera, informatrice e spia per la polizia politica nazista. Il suo metodo era spietatamente semplice: un abbraccio o un gesto affettuoso indicava alla squadra di Antonelli chi fermare.

Dopo la razzia del 16 ottobre 1943, che deportò oltre mille ebrei ad Auschwitz, la caccia continuava. Molti riuscivano a nascondersi o a mescolarsi tra la popolazione romana, e il regime cercava nuove alleate per individuare le vittime. Dopo l’attentato dei Gap a via Rasella, il 23 marzo 1944, la rappresaglia tedesca intensificò la pressione su Celeste. Antonelli le chiese di completare la lista delle vittime, promettendo ricompense maggiori. 

La ragazza indicò 26 nomi, tra cui parenti e conoscenti, mentre all’ultimo momento il fratello Angelo fu sostituito dal pugile Lazzaro Anticoli, noto come Bucefalo. Quest’ultimo lasciò nel carcere di Regina Coeli un atroce messaggio inciso con un chiodo: “Se non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi.” Anticoli fu massacrato alle Fosse Ardeatine insieme ad altre 334 vittime innocenti. Celeste, però, continuava a muoversi tra la paura e il potere, tra privilegi e colpa, tra libertà apparente e responsabilità terribile. Il suo volto, i suoi gesti e la sua gioventù mescolavano fascino e crudeltà, attirando chiunque la circondasse e rendendola al contempo temuta e odiata. Tutti sapevano, nel passaparola del ghetto e tra la popolazione romana, che Stella era una spia senza scrupoli, eppure nessuno riusciva a fermarla.

Continuava a frequentare i locali, a vestire con eleganza, a vivere una vita che, per contraddizione, sembrava normale, persino agiata, mentre altri intorno a lei scomparivano. Con l’arrivo degli Alleati a Roma, agli inizi di giugno del 1944, Celeste scomparve. Si rifugiò a Napoli con il nome di Stella Martellini, dove nessuno poteva riconoscerla. Lì cercò di sopravvivere come poteva, vivendo secondo i dettami della città occupata ma liberata, facendo lavori umili e cercando di cancellare il proprio passato. Curzio Malaparte raccontò crudamente la realtà dei locali in quel periodo, e Celeste si trovò a fare ciò che mai avrebbe immaginato: servire clienti ignari che, poco dopo, la denunciarono per i crimini commessi. Arrestata e sottratta a un tentativo di linciaggio, fu poi rilasciata e si rifugiò per un anno in un convento a Perugia, cercando di rendersi invisibile. 

Nonostante i tentativi di sparire, la giustizia non la dimenticò. Al processo, difesa dal celebre penalista Francesco Carnelutti, Celeste affrontò l’odio diretto dei parenti delle sue vittime. Condannata a 12 anni di reclusione, ne scontò solo una parte grazie agli effetti dell’indulto e alla conversione al cattolicesimo. Poi cercò una nuova vita: si trasferì a Trento, imparò a fare la sarta, sposò Aldo Forlani, figlio della donna che le insegnava a cucire, ed ebbe una figlia. Il matrimonio fu celebrato nel 1951 ad Assisi, nella cripta di San Francesco, simbolo di una rinascita quasi surreale dopo tanto orrore. Per trent’anni Celeste visse nell’ombra, cercando di cancellare le tracce della Pantera Nera. Tornata a Roma, morì il 13 marzo 1981, a 56 anni, ma con un volto segnato da decenni di tensione e colpa.

La memoria delle sue azioni, tuttavia, non scomparve mai: Stella e Celeste, bellezza e crudeltà, giovinezza e spregiudicatezza, rimasero nell’immaginario come una figura ambigua e tragica, simbolo di quanto la paura, la miseria e il desiderio di sopravvivenza possano trasformare l’animo umano.Celeste Di Porto rimase per sempre una presenza inquietante nella memoria storica: il ghetto di Roma, i vicoli e le piazze, i ristoranti affollati, le cucine e le sale da pranzo, tutto portava i segni del suo passaggio. 
Era la prova vivente che, anche nel cuore di una città antica e solare, l’ombra della violenza e del tradimento poteva insinuarsi, mescolandosi con il fascino e la giovinezza, e che la linea tra vittima e carnefice è spesso più sottile di quanto si creda.