ROMA - Quelli della democrazia interna e della gestione del conflitto sono problemi che attanagliano il M5s fin dalla sua nascita.
Da principio infatti la guida del movimento era sotto il rigido controllo di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio, i meetup erano luoghi di incontro confusionari, e solo pochi di essi hanno saputo davvero relazionarsi con la società civile dei territori dove si sono sviluppati. Il loro attivismo di conseguenza è stato percepito subito come un problema dai vertici. Da una parte perché quando raramente si esprimeva come un cervello pensante, il meetup poneva questioni alle quali era difficile rispondere. Dall’altra, molto più frequente, perché diventava contenitore di personalismi e arrivismi sfrenati, creando divisione invece che aggregazione. Nel primo caso la risposta dei vertici è stata quella di isolare chi domandava maggiore partecipazione e proponeva criticità da affrontare in modo strutturato ma collettivo, dal basso. Nel secondo se ne lavava le mani, intimando ai meetup di risolvere i propri personalismi internamente, pena la revoca del simbolo. Questo atteggiamento, unito ad una crescita troppo veloce a partire dal 2011 in poi, ha fatto sì che le menti più brillanti, critiche, impegnate su base ideologica, si siano per la maggior parte stancate e distanziate, mentre i personalismi e gli arrivismi siano esplosi con ancora maggior impeto, spinti soprattutto da una immaturità politica e da uno spessore culturale molto basso, che sono il terreno più fertile per una troppo grande idea di sé stessi. Con il tempo niente è cambiato.
Una volta entrata la prima ondata di parlamentari ci si è affrettati a chiudere i meetup, ci si è dimenticati del tanto sbandierato recall e ai vertici si è aggiunto Luigi Di Maio, più che altro per gestire i gruppi parlamentari che già nei primi mesi dimostravano il fallimento dell’approccio utilizzato fino a quel momento. Come prevedibile, nella prima legislatura le espulsioni e gli abbandoni si sono moltiplicati e non per una sbagliata selezione della classe dirigente, ma perché quella selezione proprio non c’è stata. Con il passaggio poi ereditario da Gianroberto a Davide Casaleggio e tutta la serie di modifiche fatte ai principi e ai regolamenti del M5s, l’impronta verticistica si è radicalizzata ancora di più, tanto che per la seconda infornata o per i ruoli di punta nelle strutture dei comuni amministrati, il metro di selezione è stato il rapporto personale. Una cura ancora peggiore della malattia, ma che almeno garantiva, così si pensava, lealtà a chi li aveva nominati.
Senza colpo ferire si sono accettati così i tanti tradimenti dei principi fondativi: dall’anti-leaderismo si è passati al capo assoluto, dal movimentismo al partito, dai territori ai palazzi romani, dalla trasparenza alle riunioni segrete. Un tempo grandi rivoluzionari, i 5 Stelle non hanno compreso che una rivoluzione senza struttura di pensiero, senza una discussione critica che la faccia elevare, è solo una rivolta, niente di più. E allora è facile emergano più che altro capi popolo, avventurieri e arrivisti, disposti per il proprio tornaconto ad avallare tutto finché conviene, anche ad essere semplici pigiabottoni, per poi però abbandonare la nave al primo segnale di burrasca. I nodi insomma prima o poi vengono al pettine. Dopo un anno di esperienza di governo il M5s si trova così sempre più abbandonato dalla sua base della prima ora, incravattato e rimpinguato di personaggi che nulla hanno a che vedere con lo spirito che lo ha fatto nascere, in crisi per i giudizi sferzanti di quei media che ha voluto sfidare, dimostrando però di non avere le spalle per farlo. Qualche errore certo è ammissibile, qualche caduta su alcuni principi può essere persino giudicata una evoluzione, una maturazione, ma uno sviluppo del genere significa più che altro trovarsi in balia delle onde.
E’ in momenti come questo che si misura la caratura personale e politica e per chi non ne ha, qualsiasi scialuppa di salvataggio a cui aggrapparsi è buona. Matteo Salvini lo sa molto bene e infatti la scorsa settimana ha dichiarato che molti tra i 5 Stelle sono pronti a saltare sul Carroccio. “Il disagio dentro i 5Stelle per l’alleanza con il Pd sarà palesato con alcune sorprese, ossia con passaggi verso la Lega” ha detto in tono soddisfatto dopo le voci di una riunione infuocata dei gruppi parlamentari del M5s in Senato. Consapevole che il rischio di sfaldamento è concreto, Luigi Di Maio da una parte ha tentato di contrattaccare, accusando Salvini di essersi “ridotto come un Berlusconi qualsiasi che cercava di comprare i vari De Gregorio”, ma dall’altra è corso ai ripari, promettendo una ristrutturazione del Movimento che assicurasse maggiore condivisione: “avremo un’organizzazione che il Movimento prima non ha mai avuto” ha affermato. In pratica, si tratta di una specie di segreteria e di una sorta di direzioni territoriali su base regionale, ossia la struttura di un partito vero e proprio.
E chissà non sia almeno una soluzione per dare quantomeno una rotta, visto che di modifiche al regolamento e alla struttura, alla modalità di selezioni dei candidati e di composizione di direttori, gruppi, gruppetti, probi viri e compagnia bella si è perso il conto. Le voci però di una vera e propria rivolta interna non si sono placate e in un documento firmato da almeno 70 parlamentari si è tornato a chiedere la convocazione di una assemblea per modificare il regolamento. Di Maio tuttavia continua a minimizzare, assicurando che non è una ribellione contro di lui, ma allo stesso tempo è tornato a chiedere l’introduzione del vincolo di mandato e a minacciare multe impossibili di 100mila euro per chi cambia casacca. Dai gruppi parlamentari infatti cresce ogni giorno di più l’allarme per il pressing dei renziani sugli scontenti e già la senatrice Silvia Vono ha aderito ad Italia Viva giovedì scorso. Il timore che altri possano seguirla presto o dirigersi verso la Lega rimane concreto. E senza contare le manovre del consigliere regionale del Lazio Davide Barillari, che dopo aver organizzato un primo incontro a Bologna, ieri è tornato a radunare i cosiddetti “ribelli della coerenza” a Firenze.
Coerenza, una parola che nel M5s in pochi possono pronunciare. Tanto meno coloro che, dopo essersi fatti eleggere al suo interno, si sono improvvisamente accorti di tutti i suoi problemi di democrazia interna. Forse per costoro sarebbe meglio fare un passo indietro dalla vita politica per riflettere sul proprio spirito di osservazione. Così, giusto per coerenza. LME