Un anno fa l’Australia bruciava e i cambiamenti climatici erano al centro dell’attenzione mediatica; il primo ministro Scott Morrison, costretto ad anticipare il suo rientro dalla vacanza ‘sbagliata’ alle Hawaiii, sembrava avere imboccato una strada senza ritorno; la politica era tutto meno che in ferie e, come ogni anno, i riflettori ‘popolari’ erano puntati sugli Australian Open di tennis.

Un anno dopo gli incendi stanno interessando ‘solo’ la costa occidentale del Paese e non stanno di certo procurando la stessa devastazione di quelli che hanno causato morte e distruzione, più o meno 12 mesi fa, sulla costa orientale e meridionale del Paese, interessando particolarmente New South Wales, Victoria e South Australia. 

Non ci sono pertanto le iperbole catastrofistiche dei verdi, che evidentemente meno angosciati sono andati in vacanza, e sicuramente nessuno si sogna di criticare minimamente la pausa che si è preso Morrison, dopo un anno in prima a linea a combattere, con successo, la battaglia contro la pandemia di coronavirus che sta ancora attanagliando l’intero Pianeta, nonostante la risposta in tempi record dalla scienza sul fronte di un vaccino che si sta già somministrando in mezzo mondo. La politica, come ogni anno, nonostante il virus che miracolosamente in Australia sembra essere sotto controllo, si sta prendendo la rituale pausa estiva e gli Australian Open, ancora una volta, sono al centro dell’attenzione, ma per tutti i motivi sbagliati. Quest’anno se ne parla perché sono stati rinviati di alcune settimane, ma soprattutto per la doppia sfida lanciata dagli organizzatori e dal governo del Victoria alla relativa ‘fortuna’ (per tempi - l’Australia ha una stagione di vantaggio sull’evolversi dell’infezione - e geografia, con il fattore ‘isola’) che ha finora accompagnato il Paese nella sua lotta alla pandemia e il buonsenso. Sfide che un po’ tutti ci auguriamo che Tennis Australia e Daniel Andrews possano vincere, anche se qualche dubbio al riguardo è più che legittimo. Oltre mille persone, provenienti da ogni angolo del mondo (che dal punto di vista dei contagi è conciato piuttosto male), da tenere sotto controllo per diverse settimane con almeno quattro campanelli d’allarme nelle ultime 48 ore, con l’arrivo di alcuni positivi su voli provenienti da Los Angeles e Abu Dhabi, che hanno forzato l’immediata quarantena di 47 giocatori, oltre che vari accompagnatori. Partenza da brividi insomma per un Victoria, ancora scosso da un lunghissimo lockdown, che sta timidamente cercando di ritrovare ritmo economico e fiducia in un governo che ha faticato parecchio per riportare sotto controllo un’infezione che era stato accusato di avere indirettamente causato lasciandosela poi sfuggire di mano. 

Un breve ‘attimo’ di sofferta serenità, poi le immediate barricate, alzate con una prontezza e paura senza precedenti, che hanno lasciato in limbo migliaia di cittadini a Brisbane e Sydney a cui è stato vietato il ritorno a Melbourne (qualche riapertura, con permessi di rientro condizionati da pronti tamponi, dal Queensland dallo scorso sabato sera e qualche spiraglio di analoghi provvedimenti per le famiglie bloccate a Sydney forse già oggi o domani), ma ben vengano i tennisti e i loro entourage perché “se non ospitiamo gli Open ce li portano via”, ha detto giovedì Andrews, senza che nessuno gli abbia fatto osservare che Londra, lo scorso anno, ha cancellato Wimbledon senza le stesse paure. Giustificazioni che lasciano il tempo che trovano naturalmente e macchina organizzativa ormai messa in moto: quindi dita incrociate ignorando, una volta di più, i malumori popolari che sembrano esserci al riguardo.  

Politica statale in primo piano mentre quella federale può godersi meritate ferie, con sporadici interventi qua e là come quelli del ministro della Sanità Greg Hunt, ieri a ricordarci l’isola felice in cui viviamo rispetto al resto del mondo per ciò che riguarda il Covid, e il ministro facente funzioni degli Esteri, Simon Birmingham, che ha annunciato (sempre in relazione alle incongruenze degli Open all’insegna dei tennisti sì e cittadini no) 20 voli straordinari messi a disposizione da Canberra, a spese però dei diretti interessati, per riportare in Australia (con destinazione Northern Territory, ACT e Tasmania) migliaia di australiani bloccati all’estero che non rientrano nelle quote ridotte di arrivi settimanali concordati con i vari Stati.

Circa 37mila cittadini ancora sulle liste di attesa per il rientro nei prossimi mesi, molti dei quali inevitabilmente andranno ad ingrossare i numeri dei contagi tenuti sotto controllo negli alberghi predisposti per quella che sembra un inesauribile flusso di rientri. Nessuno, penso, si immaginava quanti fossero gli australiani sparsi per il mondo per turismo, lavoro o semplice scelta di vita. 

Rientri e gratitudine per un governo e un primo ministro che volano alti nei sondaggi, tanto da far sempre più pensare che l’occasione è troppo ghiotta per non approfittarne, dopo gli incubi di inizio 2020 con credibilità e autorità del primo ministro in picchiata al punto che più di qualche ‘osservatore politico’ lo dava già per spacciato,  e le maggiori difficoltà, dal punto di vista economico (una volta che, come si spera, lo spauracchio del coronavirus, grazie al vaccino, si sarà un po’ affievolito), che potrebbero sorgere il prossimo anno con meno attenuanti-Covid. 

Morrison, nel breve intervento (pre-ferie) di inizio anno, ha dato l’impressione di essere in perfetto controllo della situazione e rilassato sulla piega positiva che sembra aver preso il contenimento del virus su scala nazionale e non è sembrato per niente turbato dal frettoloso, ma dopotutto efficace, ricorso all’interruttore dei confini, usato dai premier ribadendo, una volta di più, la discrezione e autorità dei leader statali (e dei Territori) “che - ha detto Morrison -, alla fine dovranno rispondere direttamente ai loro cittadini delle conseguenze delle loro decisioni, nel bene o nel male”. 

Nessuna frustrazione in merito, come qualche volta aveva evidenziato nel passato, ma una certa rassegnazione e convinzione che, tutto sommato, le cose funzionano e l’Australia sta uscendo meglio del previsto (concetto ribadito anche dal ministro del Tesoro, Josh Frydenberg) dalla recessione pandemica. Conferenza stampa dai toni distesi, sensazione di ottimismo che fa pensare ad un 2021 politicamente già confezionato che dovrebbe portare, nonostante le smentite di rito, ad elezioni anticipate in primavera. Una scelta strettamente strategica per sfruttare al meglio i vantaggi Covid: naturalmente c’è sempre il tempo e la possibilità di rovinare tutto o di qualche clamoroso imprevisto, come il Victoria ha dimostrato a metà anno (sicuramente anche Morrison e la sua squadra stanno seguendo con grande attenzione ed interesse la doppia sfida degli Open ancora prima che qualcuno scenda in campo), ma sulla ‘carta’ il progetto dell’anticipo tiene. Indiscussa popolarità, autorità e credibilità regalate dalla gestione della pandemia, giusta fermezza nonostante gli indubbi rischi del caso, nei confronti dell’arroganza della Cina e opposizione alle prese con dubbi e divisioni sul da farsi. 
Anthony Albanese ha cominciato l’anno nel peggiore dei modi, con tanto di incidente stradale che l’ha portato anche se brevemente e, solo per precauzione e controlli, all’ospedale. Ma sicuramente sembra essere molto più complicato il suo recupero sul fronte della leadership, nonostante le misure di sicurezza create dalla riforma Rudd. Il possibile anticipo della sfida elettorale dovrebbe però dargli una mano a resistere e se i riflettori cominceranno a spostarsi un po’ dall’emergenza della pandemia, forse si creeranno anche nuovi spazi di visibilità in cui inserirsi. 

Siamo ancora ai preparativi, ma la lunga corsa elettorale sta per incominciare e i tempi e lunghezza del percorso li dettaranno, in questa nuova realtà che stiamo vivendo, il nemico e l’alleato numero uno: Covid e vaccino.