Italia, 1945. In un Paese ancora ferito dalla guerra, nasce Carolina. Per tutti, ‘Carol’ o ‘Lina’. Il suo primo sguardo al mondo è tra le braccia di una madre forte, Lucia, e un padre determinato, Lorenzo. Ma è il 1951 che segna il primo, grande bivio: la valigia di cartone, il saluto alle abitudini a San Marco in Lamis in Puglia e la partenza verso una terra sconosciuta: l’Australia.
Ha sei anni e con lei ci sono la mamma, il fratello Sam e le sorelle Angela e Grace. Papà Lorenzo li aspetta da due anni nel Gippsland, nel Victoria, dove la famiglia si ricongiunge dopo tre lunghi inverni.
“Non ricordo moltissimo di quel viaggio – esordisce Vescio –. Ero solo una bambina. Ma non dimentico le persone sulla nave che stavano male”.
La lingua è un muro, le abitudini un labirinto. Ma Carolina impara presto. Traduce, aiuta gli altri membri della famiglia, si adatta alla nuova cultura: “Ho imparato l’inglese a scuola, mi ci è voluto poco, dopo un anno ero già molto fluente”, racconta con soddisfazione.
A sette anni è già una colonna in casa: lava i piatti in piedi su uno sgabello, cucina, stira. Poi nel 1952 nasce Frank, il fratellino più piccolo: la famiglia ora è al completo.
Il tempo scorre tra campi da lavorare, serate davanti alla Tv e l’inglese che si trasforma lentamente in lingua madre. Le domeniche le passa nei campi a raccogliere fagioli, spesso seduta nel retro di una ute, mordendo piselli freschi e sognando gelati dopo il cinema del pomeriggio. La Tv? Zorro e i film di Doris Day. Fantasia e coraggio, ma in bianco e nero.
A 14 anni Carolina entra nel mondo del lavoro: primo impiego al supermercato locale, reparto salumi. In poco tempo diventa la responsabile del reparto.
Poi il salto a Melbourne, nel quartiere operaio di Coburg. È il 1963, nuovi paesaggi, nuove sfide. Ma la stoffa c’è, e nel 1965 viene assunta da Fletcher Jones. È lì che scopre la passione per il cucito. Diventa sarta di precisione, specializzata in abiti maschili su misura. Il lavoro diventa arte, la fatica motivo d’orgoglio.
Nel frattempo, arriva l’amore. Si chiama Frank, come il fratellino. Aspetta Carolina fuori dal lavoro, giorno dopo giorno. Si sposano nel 1966. Due cuori, una casa, mille sogni. Nascono Laurie, Cathy e Luci. La mamma Lucia, ormai nonna, dà una mano. Anche la vicina ‘nanna Delaney’ entra in questa rete di solidarietà domestica.
Carolina lavora part-time, cresce i figli e tiene in piedi il suo piccolo mondo. “La famiglia è il mio tutto. Se le persone che ami sono lì per supportarti, allora non hai bisogno di nient’altro”.
Nel 1975 la famiglia si trasferisce a Craigieburn. Un quartiere nuovo e un futuro che pian piano prende forma.
Nel 1980 nasce Michelle, la più piccola. Carolina condivide le sue origini italiane con parenti e amici: insegna loro a fare le salsicce, prepara deliziosi sughi alla bolognese, partecipa a feste e falò.
“Il cibo italiano è il cibo delle mie radici. Voglio mantenere le tradizioni dei miei antenati e passarle alla prossima generazione”.
E aggiunge: “Mia figlia, ad esempio, mi chiede spesso: ‘Perché non cucini la zuppa di lenticchie?’. È una ricetta molto semplice, ma in famiglia ne vanno tutti matti”.
Intanto, è molto attiva anche nella vita comunitaria e, tra un allenamento e una partita, accompagna i figli a tennis, atletica, netball, basket, cricket.
Poi arriva il buio: nel 1989 una diagnosi di cancro. Radioterapia, tanta paura e una grande battaglia.
Ma Carolina vince. Nel 2008 però un altro ostacolo: il linfedema. Nuove cure, nuova routine. Ma anche qui la risposta è concreta: non si perde d’animo, va in piscina, fa idroterapia ed entra nel gruppo di volontariato.
Si alza all’alba, tre volte a settimana, guida gli esercizi, prepara il tè per il gruppo.
“Tante amiche, chiacchiere e biscotti”, racconta sorridendo. Piccoli riti di resistenza quotidiana.
Il segreto della sua resilienza? “Io penso sempre positivo. Mi dico, anche nelle difficoltà, che tutto andrà bene. Bisogna sempre sperare per il meglio”.
Oggi Carolina è nonna di dieci nipoti.
Ha attraversato l’oceano in cerca di speranza, ha affrontato la malattia, i cambiamenti epocali, le difficoltà quotidiane. Ha cucito abiti e tirato su una famiglia, cucinato nel rispetto della tradizione, costruito una vita con mani operose e con un cuore grande.
“Devi fare del tuo meglio nella vita. Non bisogna mai arrendersi. Domani è un altro giorno e potrebbe sempre andare meglio”, asserisce con convinzione.
Il 19 luglio ha compiuto 80 anni. E ha ancora quella stessa abitudine: alzarsi, guardarsi allo specchio e dire, con semplicità: “Mi sento fortunata. E non vedo l’ora che arrivi un nuovo giorno”.