Quando il politicamente corretto diventa strumento esasperato, il rischio che si corre è che, presi dalla necessità di adeguarsi a un collettivo bisogno di cambio di linguaggio, si entri in un territorio dove lo spirito critico viene dimenticato e dove il simbolo assume valore autonomo rispetto al significato.

Quello che sta accadendo in questi giorni in tutto il mondo richiederebbe, più che masse inferocite che si scagliano contro monumenti, invece proprio una profonda riflessione sul merito della realtà, e non soltanto sui simboli e sulle rappresentazioni linguistiche di essa.

Statue abbattute, censure e cancellazioni di film e di spettacoli dai palinsesti televisivi e di importanti piattaforme di streaming, fino, addirittura, al ritiro, dagli scaffali di una nota catena svizzera di supermercati, di cioccolatini il cui nome è ritenuto offensivo e razzista.

Ora, posto che quando si tratta di razzismo non si può che essere tutti d’accordo sul fatto che non vi sia da lasciar spazio a posizioni e affermazioni equivoche, saremmo davvero al limite della bizzarria se pensassimo, realmente, che il nome dei cioccolatini “Mohrenköpf”, ovvero “testa di moro”, sia un temibile strumento di propaganda razzista.

Ma questi sono i tempi in cui il responsabile editoriale della sezione dei commenti del New York Times è costretto a dimettersi per aver ospitato in quelle pagine un commento di un senatore statunitense che andava, con toni discutibili dal punto di vista editoriale ma non per questo da censurare, controcorrente rispetto a quanto stava, e sta, accadendo negli Stati Uniti dopo la terribile morte di George Floyd. Dimissioni, e lo si può comprendere entrando nel dettaglio della vicenda, che sono tra l’altro il risultato di una lotta intestina alla redazione del quotidiano tra due generazioni di giornalisti, e non solo, quindi, una questione meramente ideologica.

Questo è il periodo in cui registriamo atti di vandalismo, per citare soltanto alcuni delle centinaia che si stanno verificando in queste ore in tutto il mondo, contro la statua di Cristoforo Colombo, o per restare in casa nostra, contro quella del capitano Cook ad Hyde Park a Sydney. I busti di Tony Abbott e John Howard imbrattati a Ballarat, la statua del capitano James Stirling a Perth è stata vandalizzata e l’elenco potrebbe essere molto più lungo.

L’ondata di revisionismo storico-culturale di queste guardie rosse del nuovo millennio va avanti da ormai molto tempo, all’insegna di una supremazia morale che abbatte il confronto e, soprattutto, il dissenso, come si abbatte una statua, pensando che, buttandola a mare, si butti a mare la storia.

Ancora più preoccupante, in prospettiva, è la totale assenza di paradigma democratico in queste vicende, contrassegnate da un fanatismo manicheo che divide il mondo in buoni e cattivi, dividendo in due blocchi chi fa parte del passato e quindi, per definizione, può essere raso al suolo e chi invece si dichiara portatore di nuovi linguaggi basati su un sistema valoriale superiore.

Edoardo Crisafulli, autore di un libro dal titolo evocativo “Igiene verbale. Il politicamente corretto e la libertà linguistica”, pubblicato sedici anni fa, ha sottolineato molto bene le contraddizioni del dibattito che si stava e ancora si sta svolgendo sul tema del politicamente corretto, lasciando tra l’altro aperto il dubbio se sia dalle abitudini del linguaggio che si deve partire per cambiare la realtà circostante o si debba, con percorsi democratici e partecipativi, agire direttamente sulla realtà sostanziale e non sulla forma. 

Certo è che offuscati dal fanatismo è difficile avere la lucidità per analizzare la realtà nella sua complessità e si rischia di assumere posizioni di intransigenza che tutto rappresentano tranne una visione progressista della realtà.