Si trova in Ghana la più grande discarica di abiti al mondo e le immagini sono impressionanti: infinite distese di capi d’abbigliamento che aspettano di essere inceneriti. Arrivano da ogni angolo container carichi di abiti nuovi e usati, circa 780 milioni ogni anno, 15 milioni la settimana e il 40% di questi si trasforma in rifiuto entro una settimana dall’ingresso al porto, secondo i dati della Ellen MacArthur Foundation, la più autorevole fondazione mondiale nell’ambito dell’economia circolare. 

L’impatto ambientale è altissimo e non solo per lo smaltimento, l’industria della moda è infatti una delle più inquinanti al mondo, responsabile della produzione di una quantità di gas serra superiore a quella prodotta da tutti i voli internazionali e il trasporto marittimo mondiali messi insieme.

In questa cornice catastrofica, si trova però un esempio virtuoso, le cui radici risalgono a oltre 150 anni fa, ed è quello dei cenciaioli, i raccoglitori di stracci di Prato. Ce lo raccontano Silvia Gambi e Tommaso Santi nel documentario Stracci, recentemente proiettato presso il Queensland College of Art di Brisbane.

Tommaso Santi è un regista e sceneggiatore pratese vincitore del Gran Premio della stampa estera al Globo d’oro del 2017 e vincitore nel 2018 al Festival del Cinema di Venezia, per la miglior sceneggiatura con il cortometraggio per bambini Krenk, diventato poi anche un libro.

Silvia Gambi, anche lei originaria di Prato, è una giornalista, consulente e docente che ha dedicato la carriera al tema della sostenibilità nel mondo della moda, fondando anche il blog e podcast Solomoda sostenibile.

“L’idea di Stracci nasce da un testo teatrale di fantasia ambientato nel mondo dei cenciaioli, a cui avevo pensato 15 anni fa” racconta Tommaso Santi che all’epoca aveva fatto delle interviste ad alcuni di loro, filmandole.

“Dopo oltre un decennio, ho ritrovato questo materiale che raccontava un mondo passato, ma che è molto attuale e rilevante oggi per l’economia circolare, così ho pensato di attualizzare il tema e raccontare la realtà di Prato e quella di alcuni altri Paesi nel mondo come il Ghana, o quella del Pakistan e India dove si trovano le più grandi imprese di selezione di stracci”. 

Mettendo insieme la sua esperienza e sensibilità di regista, con le competenze sull’economia circolare e la sostenibilità nell’ambito della moda della compagna di vita Silvia, hanno costruito un documentario “che dal passato e dalla finzione si è spostato alla contemporaneità e realtà”, aggiunge Santi.

Stracci sottolinea la necessità di un’economia circolare, rappresentata dall’esperienza centenaria di Prato nel riciclo della lana, come possibile soluzione alla situazione ormai fuori controllo dell’industria dell’abbigliamento, che produce ogni anno scarti pari a 60 miliardi di vestiti l’anno. L’idea di riciclare i tessuti, nata in Inghilterra nella prima metà dell’800, è stata poi implementata a Prato, dove si ha avuto l’intuizione di farlo usando l’acqua durante il processo. 

Nella foto: un cenciaiolo durante la fase di selezione dei capi

Dopo la Seconda guerra mondiale, il recupero delle materie prime diventa fondamentale per ovviare alla loro mancanza ed è così che nasce quella rete di piccole aziende che comprano gli stracci di lana al chilo, per trasformarli in filati e tessuti e rivenderli poi al metro.

È affascinante osservare le immagini in cui Santi mostra i cenciaioli seduti a terra tra grandi pile di capi d’abbigliamento colorati, mentre con il solo tocco di una mano riescono a stabilire la composizione: se sono di sola lana possono essere riciclati, altrimenti vengono scartati e destinati ad industrie diverse, perdendo in qualità e valore, diventando imbottiture o altro materiale,  il cosiddetto down cycling.

I cenciaioli hanno la competenza non solo di selezionare le fibre, ma anche la sfumatura del colore. Il processo di recupero della lana, infatti, ha anche il grande vantaggio di evitare la tintura - una fase particolarmente inquinante - e lo fa attraverso un’attenta selezione dei colori che vengono mescolati a seconda della sfumatura che si vuole dare al filato. Solo per il colore azzurro riescono ad ottenere almeno 19 tonalità.

La lana ottenuta dopo essere stata riciclata, viene chiamata ‘lana meccanica’, per distinguerla dalla lana vergine, ma nemmeno gli occhi più esperti riuscirebbero a distinguerle. 

La lana non è l’unica fibra riciclabile, tutte le fibre animali lo sono, persino il cashmere, che una volta riciclato ha un impatto ambientale che arriva ad essere del 95% in meno rispetto a quello del cashmere vergine. E la cosa straordinaria è che i tessuti ottenuti da questi processi possono essere riciclati più volte. 

“Il percorso verso l’economia circolare del sistema moda è lungo e difficoltoso, per implementarlo davvero si dovrebbe partire dalla progettazione dei capi – spiega Gambi –. In questa fase, infatti, si determina l’80% degli impatti ambientali che avranno”. 

Insieme al progetto del capo va considerata anche la scelta dei materiali, l’assemblaggio e il tipo di accessori usati, tutti elementi determinanti per creare capi con un ciclo di vita più lungo. Ma certo richiede tempo cambiare la strategia di un settore che produce abiti pensati per durare una sola stagione.

Fortunatamente, la Comunità Europea sembra voler investire in una nuova strategia per il tessile sostenibile, rafforzando il concetto di responsabilità sia delle aziende che dei cittadini, considerato che dal 2050 la raccolta differenziata del tessile diventerà obbligatoria in tutti i paesi europei. 

“Quelli che sono scarti devono essere considerati tali solo quando non sono più riutilizzabili in nessun’altro modo, altrimenti bisogna farli diventare materia prima o seconda, anche alla luce del fatto che si comincia a vedere una certa scarsità di materie prime”, conclude Silvia Gambi.

Questo richiederà uno sforzo collettivo dei grandi marchi della moda e dei consumatori, che dovranno cambiare abitudini applicando i tre pilastri dell’economia circolare: riduci, riusa, ricicla.