C’è un momento, nella vita politica di un Paese, in cui la normalità non basta più. Quando la routine dell’amministrazione pubblica, gli annunci calibrati e le promesse consuete smettono di tenere insieme le aspettative di un elettorato sempre più ansioso e di un’economia che mostra le sue fragilità. L’Australia sta entrando esattamente in quel momento. E a condividere il viaggio ci sono un governo laburista forte dei numeri ma carico di responsabilità, e un’opposizione liberale che si è lasciata alle spalle la stagione di Peter Dutton senza aver ancora definito cosa intende essere sotto la guida di Sussan Ley.
Sarà il 2026 a decidere chi saprà interpretare il Paese reale e chi resterà intrappolato nelle proprie contraddizioni.
Per Anthony Albanese, il tempo della navigazione con velocità di crociera è terminato. Il governo, uscito trionfante dalle urne a maggio, affronta ora la parte più delicata e rischiosa del mandato: tradurre in realtà l’ambizione di una riforma economica organica, capace di proiettare il Paese nel prossimo decennio. Non basterà un’altra stagione di amministrazione prudente, né il rispetto diligente delle promesse elettorali. Gli indicatori economici parlano di una struttura produttiva in affanno, di investimenti insufficienti, di un sistema fiscale che premia ancora troppo la ricchezza accumulata a scapito del lavoro, di servizi essenziali sempre più sotto pressione. E, soprattutto, di una generazione più giovane che percepisce la promessa australiana come meno accessibile rispetto a quelle che l’hanno preceduta.
Il bilancio federale di maggio rappresenterà uno dei primi veri test. Da quel documento dipenderà l’impianto dell’ultimo anno di legislatura, e forse anche le prospettive del governo Albanese di entrare nella storia. Perché è in quel passaggio che si vedrà se l’esecutivo avrà la forza di proporre una revisione graduale ma significativa delle agevolazioni fiscali che oggi rendono il sistema meno equo: capital gain, superannuation, detrazioni che premiano chi possiede già un patrimonio e comprimono gli spazi per investire in servizi pubblici cruciali come la sanità, l’assistenza agli anziani e l’infrastruttura tecnologica del Paese. Il governo lo sa benissimo: ogni volta che si tocca il sistema fiscale, emergono i problemi, e con loro il rischio di una controffensiva politica difficile da contenere. Ma allo stesso tempo, considerati i dati economici, la stagione dell’immobilismo non è più sostenibile.
Qualcosa, comunque, si è già mosso, e il governo subito dopo le elezioni, con la tavola rotonda di fine agosto, ha aperto un dibattito pubblico. Ora, però, la fase delle consultazioni e delle osservazioni tecniche è finita. Servono scelte, e probabilmente saranno scelte che potrebbero costare sul fronte del consenso. Ma l’unica alternativa è rimandare ancora, aggravando proprio quei problemi che l’esecutivo dice di voler risolvere.
A dare materia su cui riflettere, e agire, c’è la questione energetica, diventata negli ultimi anni la cartina di tornasole della capacità della politica di guardare oltre il mero ciclo elettorale. La transizione alle rinnovabili, che il governo rivendica come pilastro della propria agenda, si scontra ogni giorno con il malcontento degli utenti e con un sistema di approvvigionamento energetico che fatica a reggere l’uscita dal carbone. Le promesse di energia “più pulita e più economica” si scontrano con la realtà di un’infrastruttura fragile, che richiede investimenti enormi in accumulo, trasmissione, interconnessioni e tecnologia di stabilizzazione.
In questo contesto nasce la nuova misura di riserva del gas per la costa orientale, una scelta che segna un cambio di approccio rispetto all’idea che il mercato, da solo, possa garantire la sicurezza degli approvvigionamenti. Costringere i grandi produttori di LNG a riservare una quota significativa al mercato interno è una risposta a un decennio di prezzi esplosi e scarsità crescente. Ma è anche un atto politico: il governo sta ammettendo che la transizione, così come impostata, non può procedere senza una fonte di energia stabile e disponibile che faccia da ponte. La domanda che resta aperta è se questo sforzo sarà sufficiente a rendere il sistema più resistente e, soprattutto, se l’opinione pubblica accetterà l’idea che la transizione non è un automatismo virtuoso, bensì un percorso lungo, complesso e costoso.
E mentre il governo lavora per ridefinire la propria narrazione economica, l’opposizione liberale si trova ancora a rimirarsi davanti allo specchio e a comprendere quali e quanti ferite ci siano da curare. L’uscita di scena di Peter Dutton, ad oggi, non sembra abere risolto nulla: ha solo tolto un volto a un problema strutturale che da anni attraversa il partito. Sussan Ley ha ereditato una forza politica divisa su tutto: sul ruolo dello Stato, sulla politica industriale, sull’immigrazione, sulla gestione del welfare, sulle relazioni industriali. Nulla di nuovo nella storia dei liberali australiani, certo, ma mai come oggi le divisioni hanno conseguenze immediate sulla capacità di elaborare un programma di governo.
Il banco di prova prima della fine di quest’anno sarà l’immigrazione. Ley ha annunciato che presenterà i suoi programmi in materia entro Natale, ma già si intravede la difficoltà di trovare un equilibrio tra la necessità di essere precisi e dettagliati, con il rischio di fornire numeri che potrebbero risultare obsoleti nel giro di un anno, e la tentazione di un documento più vago, che però rischia di essere percepito come un esercizio di mera retorica. È il dilemma di ogni opposizione, ma nella Coalizione assume un significato più profondo e, ne abbiamo parlato spesso, si tratta dell’ennesimo momento di riconferma dell’identità stessa del partito. Su quante persone far entrare nel Paese, quali competenze privilegiare, quale impatto accettare sulle città, si gioca il confronto tra moderati e conservatori, due blocchi ideologici in cerca di una visione accettata con favore dall’elettorato.
Il paradosso è che sia il governo sia l’opposizione entrano nel nuovo anno con una sorta di specchio deformante davanti: i laburisti hanno un’agenda, ma devono dimostrare di avere il coraggio politico per realizzarla fino in fondo; i liberali hanno uno spazio politico enorme, perché la stanchezza verso i governi riformatori, prima o poi, arriva sempre, ma non hanno ancora la benchè minima definizione di un progetto da offrire agli elettori.
La sensazione è che il 2026 non sarà un anno qualsiasi. Sarà l’anno in cui l’Australia deciderà se affrontare il futuro con un governo disposto a pagare il prezzo delle riforme o con un’opposizione capace di reinventarsi e proporre un’alternativa credibile. Per ora, la partita resta aperta. Ma il tempo non farà sconti a nessuno dei due contendenti. L’elettorato vuole risposte, non slogan; vuole certezze, non modelli astratti; vuole politici che sappiano dire la verità sui costi delle decisioni e non nascondersi dietro la retorica dell’inevitabilità.