Il bombardamento che distrusse l’abbazia di Montecassino, il 15 febbraio 1944, venne accolto con un senso liberatorio ed entusiasmo dai soldati alleati schierati alle pendici, che vedevano in quell’edificio un nemico di pietra da abbattere, ostacolo allo sfondamento della Linea Gustav e delle difese tedesche. Il valore simbolico venne ingigantito dalla propaganda alleata i cui corrispondenti militari di guerra ripresero da ogni angolazione possibile lo scempio del luogo sacro. Pe risparmiare l’abbazia era stato fatto il possibile, ma poi il traduttore di un dispaccio tedesco aveva confuso la parola “Abt”, abate, con l’abbreviazione di “Abteilung”, reparto militare, facendone derivare che all’interno delle mura c’erano i soldati del Feldmaresciallo Albert Kesselring invece del vescovo Gregorio Diamare. Quando gli Alleati si accorsero del tragico errore, i bombardieri erano già partiti per la loro missione e non fu più possibile fermarli.
Le correzioni e gli aggiustamenti del fronte in quel settore rispondevano alla tattica difensiva di Kesselring, vanificando i continui sforzi degli attaccanti. Lo sbarco ad Anzio (22 gennaio 1944, Operazione Shingle) non aveva dato i frutti sperati e per poco non si era risolto in un disastro. La Gustav teneva e nella Valle del Liri nei pressi di Cassino il 14esimo Corpo corazzato del generale Frido von Senger und Etterlin sbarrava la via di Roma avvalendosi dei massicci appenninici, del disegno fluviale e delle opere fortificate realizzate guadagnando tempo nei combattimenti lungo la Linea d’inverno. L’abbazia di Montecassino, dall’alto, sorvegliava le miserie degli uomini e le tragedie della guerra, dominando lo scenario bellico.
Il sacro luogo era stato fondato da San Benedetto nel 529. Il re dei goti Totila l’aveva visitato in pellegrinaggio, ma poi i longobardi l’avevano raso al suolo nel 591, 40 anni dopo la morte del fondatore. L’abbazia era stata nuovamente profanata e distrutta nell’883 dai saraceni (la ricostruzione avverrà solo 70 anni dopo) e non sarebbe stata risparmiata neppure dal terremoto del 1349. A Montecassino erano stati salvati i tesori culturali dell’antichità, come l’opera di Virgilio, e preservato il patrimonio della classicità grazie all’ordine benedettino che nel 1866 era riuscito a scansare la soppressione che riguardava diversi ordini monastici decisa dal governo del Regno d’Italia.
Nel furore del secondo conflitto mondiale quell’oasi di pace e di spiritualità veniva percepita dai soldati alleati come una spietata barriera invalicabile che reclamava un continuo tributo di sangue e impediva lo sfondamento della Gustav. La frustrazione per gli insuccessi sul fronte spinse in maniera irrefrenabile verso la decisione di distruggere l’abbazia, ritenuta a torto come un punto d’osservazione tedesco implacabile nel segnalare ogni minima mossa sul campo di battaglia e a scatenare le contromosse, con colpi mirati di artiglieria e scontri di fanteria. Il generale neozelandese Bernard Freyberg non aveva dubbi al riguardo e chiese più volte, alla fine ottenendolo, il disco verde al bombardamento a tappeto.
Il comandante in capo Dwight Eisenhower prima dello sbarco in Sicilia aveva scritto al generale George Marshall che occorreva usare ogni cautela in un Paese-museo come l’Italia per “evitare la distruzione” di opere d’arte “irremovibili”, ma purché non fossero ostacolate le operazioni militari. E aveva precisato a tutti i comandi, il 29 dicembre 1943: “Stiamo combattendo in un Paese che ha contribuito molto alla nostra eredità culturale, un Paese ricco di monumenti che dalla loro creazione hanno testimoniato la crescita di una civiltà che è la nostra. Siamo obbligati a rispettare questi monumenti per quanto la guerra permette. Se dobbiamo scegliere tra distruggere un famoso edificio o sacrificare i nostri soldati, la vita dei nostri uomini conta infinitamente di più dell’edificio. Ma la scelta non è sempre così netta. In molti casi i monumenti possono essere salvati senza alcun detrimento per le operazioni”.
Non fu così per l’abbazia di Montecassino. Il capace generale Senger, antinazista e anglofilo senza nasconderlo, era un benedettino laico (aveva preso gli ordini minori) e quindi particolarmente sensibile al significato spirituale, culturale e morale dell’abbazia. Aveva fatto il possibile e l’impossibile per salvare i tesori custoditi dai monaci, compresa l’antica biblioteca di valore incommensurabile, e la propaganda tedesca aveva insistito a lungo sull’opera salvifica dei tedeschi (ovviamente tacendo che su alcune opere d’arte aveva messo le mani il Reichsmarschall Hermann Goring, collezionista e depredatore compulsivo). Nonostante quello che la propaganda alleata sosteneva per giustificare gli insuccessi, e segnatamente l’Agenzia Reuter, nell’abbazia non c’è un solo soldato tedesco.
Lo aveva dichiarato pubblicamente e per iscritto il vescovo abate Diamare, lo aveva ribadito tre volte l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von Weizsacker (7 novembre e 23 dicembre 1943; 12 gennaio 1944). Il generale Senger, per il quale l’etica e l’“onore di soldato e di cristiano” non sono un dettaglio trascurabile, aveva altresì fatto tracciare un perimetro con un raggio di 300 metri interdetto ai soldati tedeschi, persino se feriti, ottemperando a un esplicito desiderio del Vaticano.
Il generale Francis Tuker, comandante della 4ª divisione indiana, pressava il neozelandese e protestante Freyberg affinché spezzasse quell’assurda “Tregua di Dio” e un bombardamento aereo spazzasse via l’abbazia. Il 15 febbraio è il giorno che la Chiesa ha dedicato a Santa Scolastica, la sorella gemella di San Benedetto da Norcia. Il giorno prima i bimotori alleati hanno sganciato migliaia di volantini indirizzati agli “amici italiani” che si erano rifugiati nel monastero intimando loro di sfollare perché l’indomani gli aerei avrebbero sganciato le bombe. L’80enne abate Diamare ha appena terminato di celebrare la santa messa davanti a cinque monaci e a un paio di centinaia di civili. Sono le 9.45: 142 Fortezze volanti B-17, 47 Mitchell e 40 Marauder vomitano a ondate 400 tonnellate di ordigni.
Le cineprese alleate posizionate alle pendici di Montecassino riprendono quel martirio di scoppi e nubi di fumo che risparmierà la sola cripta. Quando la polvere si dissolve l’abbazia non c’è più. I paracadutisti tedeschi occupano le macerie che diventano una fortezza: Montecassino Festung. Il 15 marzo l’intera area di Cassino sarà presa di mira da oltre 300 B-24 e B-17, e poi di altri 250 bombardieri pesanti della 15ª Air Force, ma toccherà alle fanterie la parola decisiva. I soldati del generale Wladyslaw Anders il 18 maggio alzeranno la bandiera polacca sulle rovine dell’abbazia conquistata, vincendo la quarta e ultima battaglia.
L’Osservatore romano all’epoca scrisse questo su Montecassino: “Dalle sue fumanti macerie sorge un rimprovero e un monito alla nostra sventurata generazione la quale, nell’odiosa violenza da cui è sconvolta, distrugge le opere più sublimi che la virtù e il genio hanno saputo suscitare in onore di Dio con l’incessante richiamo dei redenti verso di Lui”. La Città Eterna, Roma, avrebbe accolto gli Alleati come liberatori solo alla vigilia dello sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.